Ordinaria amministrazione

Era nel suo ufficio: tutto il contesto suggeriva che avrebbe dovuto lavorare, e invece si ritrovava in mano un pesce enorme oblungo e viscido, così viscido che continuava a scivolargli dalle dita. Il pescione stava appoggiato sulla sua scrivania, in mezzo alle graffette e ai fogli volanti. Era abbastanza sicuro che il suo lavoro non avesse nulla a che fare coi pesci, e d’altronde l’ambiente circostante poco aveva a che spartire con una tipica pescheria. Poco più in là, stravaccata sopra a una sedia ergonomica, una collega sbuffava nella sua direzione. Sembrava decisamente scontenta del suo operato.

Dunque, il pesce: occhi velati come un vecchio catarattico, una fila di dentini aguzzi perfettamente distanziati e colore nero pece, giusto qualche striatura verdastra che dipartiva dalla pinna caudale. La specie gli era ignota, avrebbe potuto essere un luccio, vista la dentatura, ma anche una qualche varietà di storione, a giudicare dalla forma bitorzoluta e dal colore. Eppure quel pesce aveva un nonsoché di alieno, come provenisse da una differente era della natura vivente. Non ricordava bene da dove iniziare, se dovesse prima eviscerarlo, spuntare le pinne o piuttosto raschiare con la lama di un coltello, in contropelo, le squame della bestia.

Che poi, avercelo avuto, un coltello! Allungò lo sguardo oltre i fogli sparsi e imbrattati, oltre un mare di sillabe incomprensibili e cangianti e vide un paio di forbici da bambino, col manico in plastica giallo. Soffocò una risatina ironica: come potevano aspettarsi che facesse bene il suo mestiere, se quelli erano gli strumenti a sua disposizione? La dirigenza avrebbe dovuto mettere i dipendenti nelle migliori condizioni per essere produttivi, era tutto nell’ interesse dell’azienda, dopotutto, mica si trattava di beneficienza. Afferrò il pesce appena dietro alle branchie, riuscendo a percepire una lieve ma insistente pulsazione sotto ai polpastrelli. Le branchie, in effetti, si gonfiavano seguendo un ritmo a lui imperscrutabile. Il pesce era ancora vivo, sebbene sconfitto. Non si dibatteva neanche, solo qualche spasmo ogni tanto lo percorreva ma era chiaro che si trattava di movimenti involontari, quasi a malincuore, come se il pesce volesse a tutti i costi trattenersi e stesse cercando di fare tutto il possibile per facilitargli il lavoro. Un ronzio continuo proveniva dal tritadocumenti, e anche se nessuno pareva averlo messo in funzione esso continuava a sputare striscioline filiformi di cellulosa che strabordavano dal cestino, ammassandosi sul linoleum.

Era chiaro che il compito era stato affidato a lui, lo intuiva dagli sguardi inquisitori che la collega continuava a lanciargli dall’altro lato della stanza. Dalle fauci del pesce proveniva un odore di marcio, come se il processo di decomposizione fosse in atto già da mesi nelle interiora dell’animale. Era disgustoso, eppure nell’osservarlo sentiva montare uno strano miscuglio di commozione e timore reverenziale, come se si trovasse dinnanzi a un animale preistorico, l’ultimo esponente di una stirpe dimenticata che si offriva a lui sull’altare del sacrificio.

Aiutandosi con un foglio per non perdere la presa sollevò la bestia a mezz’aria, ficcando le forbici bene in fondo al solco brunastro delle branchie. Sentì qualcosa scrocchiare sotto la pressione meccanica e un debole fiotto di sangue schizzare in direzione dello schermo del laptop poco distante. Ebbe qualche difficoltà a recidere la lisca dorsale, ma a parte questo era riuscito a compiere l’operazione senza troppi intoppi. Aveva appoggiato la testa dell’animale appena di fianco al corpo, osservando di sottecchi la collega, che non sembrava essersi persa un solo istante dell’atto. Ora pareva decisamente più soddisfatta, annuiva tra sé.

«Hai visto? Ce l’ho fatta», le disse.

Lei ora esibiva un mezzo sorriso indecifrabile, mormorò qualcosa nella sua direzione.

«Non credere che sia finita, c’è ancora molto da fare: non si smette mai, qui. Non credere che sia finita!».

Continuava a non capire. Abbassò lo sguardo e trasalì: il pesce decapitato non c’era più. Solo qualche macchia di umido, un lezzo di alghe marce e una gran confusione sulla sua scrivania testimoniavano che qualcosa di strano era appena avvenuto. Nella mano destra stringeva ancora le forbici. Guardò di nuovo la collega, che ormai non faceva nemmeno finta di distogliere lo sguardo e pareva ancora più divertita dalla situazione, quasi eccitata da ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.

«Dobbiamo rendere più efficienti i processi. Dobbiamo… Oh sì, lo so a cosa stai pensando. Avremmo bisogno di strumenti più adeguati. Ma questo passa il convento, devi accontentarti. Forse potrei fare richiesta… Ma per ora, tant’è».

Sollevò un grosso paio di cesoie da giardinaggio, tutte arrugginite, agitandolo nella sua direzione.

«Se continui così magari un giorno, chissà… Potrai avere queste!». Gli strizzò l’occhio con quella sua aria maliziosa, che iniziava a irritarlo non poco.

Sulla sua scrivania ora era comparso un grumo di carne cianotica, qualcuno doveva averlo piazzato lì davanti senza che lui se ne fosse accorto. Era avvolto da una specie di pellicola semitrasparente, venata, e pulsava. Con estrema attenzione infilò le forbici nella membrana e le fece scorrere lungo tutta la lunghezza del fagotto, dischiudendolo. Un liquido caldo colò oltre il bordo del tavolo, macchiandogli i pantaloni. La collega rideva sguaiatamente, mentre giocherellava con il mouse. Il feto avrà avuto forse sette mesi di vita, se ne stava tutto rannicchiato come un ragnetto in letargo. Doveva a tutti i costi evitare di svegliarlo, serviva un lavoro pulito. Certo non era affatto facile, con tutte quelle risa isteriche a distrarlo.

«Non importa poi tanto, se si sveglia. Sai, non sa ancora parlare, non può nemmeno piangere. Oh, insomma, datti da fare! Vorrei anche andarmene a casa, tra non molto. E temo stia per piovere».

Osservò le manine incartapecorite sollevarsi verso le lame delle forbici, come volessero guidarle. Il tritadocumenti continuava a ronzare in sottofondo, spire di carta svolazzavano a mezz’aria sollevate dalle correnti ascensionali dell’aria condizionata. Lontano, oltre le vetrate, i cumulonembi si agglutinavano minacciosi in una muraglia nera. Tutto sembrava procedere verso la disgregazione e sentì freddo, come se il Sole avesse d’improvviso dimenticato di irraggiare il suo calore. L’entropia era nella sostanza di tutte le cose, era l’unica legge rimasta a governare il mondo e opporsi era uno sforzo vano. Mentre i chicchi di grandine iniziavano a mitragliare le pareti esterne abbassò lo sguardo, sospirando, e si rimise al lavoro.

Prima o poi avrebbe chiesto un aumento.