Istruzioni per smaltire una sbornia

Era arrivato in paese che il sole era già calato, la luce scolorava lasciando incrostazioni sulle cose. Gli oggetti si facevano sempre più opachi, perdevano i loro contorni. Aveva preso il treno alla cieca, in preda a un’angoscia che non riusciva bene a spiegarsi. Dopo tre ore, e una sequenza indefinita di fermate, era giunto al capolinea. La stazione era uguale a tutte le altre, un cubo giallognolo scaraventato davanti a una rotonda e tutto intorno montagne oscure e dimenticate, a completare lo scenario.

L’aria di ottobre era elettrica, un vento secco e costante gli bruciava la pelle del viso. Non fosse stato per quel cartello blu e bianco, quel posto per lui non avrebbe avuto alcun nome. Non c’era un’anima in giro, faceva decisamente più freddo di quanto avesse previsto e aveva sempre quel ronzio conficcato nella testa, da qualche parte tra le pieghe dei lobi cerebrali, un disturbo di frequenza che gli impediva di vedere i pensieri con chiarezza. Il suono, il ronzio, era comparso qualche mese prima.

Aveva cacciato la mano in fondo allo zaino e, a tentoni, estratto l’ultima lattina di birra. Il pensiero di una notte intera senza alcool lo atterriva, ma era impensabile trovare in quel luogo, a quell’ora, un supermercato aperto. In effetti, era assurdo che ci fosse anche solo un misero alimentari a conduzione familiare, in un tale contesto. Aveva passato le ore di viaggio in uno stato di trance, guardando fuori dal finestrino senza vedere nulla, offuscato. A cadenze regolari prendeva una sorsata di birra, si rendeva conto ora di averne accartocciate almeno cinque lattine, ma non era riuscito a raggiungere lo stato di torpore che ricercava. Era ancora fin troppo lucido, e ciò significava una notte in bianco.

Sentiva un bisogno disperato di dormire, ogni cellula del suo organismo lo urlava. C’erano segnali che non poteva ignorare: il corpo reclamava ancora il suo ruolo, per quanto cercasse di metterlo a tacere. Eppure continuava a vedersi come un grosso e informe accrocchio di pensieri, tenuti assieme a stento da un involucro di pelle. Una mente deambulante, uno spettro ad aggirarsi in un mondo di cose pungenti, affilate. Ostili.

***

Un giorno, guardandosi allo specchio, aveva pensato a come la sua faccia gli sembrasse del tutto priva di logica, come se non corrispondesse a nessun organismo vivente conosciuto. Ogni lineamento sembrava agire a sé stante, i muscoli facciali non rispondevano al loro ipotetico padrone. Sul cuoio capelluto aveva una miriade di croste che continuava a grattarsi, non poteva farne a meno. A cicli di due o tre giorni, a furia di titillamenti, le croste si staccavano, la ferita rilasciava qualche gocciolina di sangue e poi riformava una nuova crosta, nera e spessa. Una corta peluria ispida, dal colore indefinito, gli ricopriva parte della testa e del viso. Un incarnato tendente al giallognolo, chiazze sparse qua e là – che un tempo avrebbe definito lentiggini – ora si affacciavano alla luce come qualcosa di molto più sinistro.

«Sei bellissimo!», gli aveva urlato Andrea dall’altra stanza. Forse era rimasto inebetito davanti allo specchio ben più del necessario.
«Stronzo», aveva mormorato in risposta.
Uno dei suoi momenti di maggior gioia era passare il filo interdentale negli anfratti delle gengive, per vederle sanguinare. Quel sapore ferroso gli piaceva: se lo faceva passare con la lingua tutto intorno alle arcate dentali e poi sputava, guardando la porcellana del lavabo colorarsi.

Aveva conosciuto Andrea a un concerto. Lui ci era andato da solo, e per la maggior parte del tempo se n’era rimasto fuori, a fumare. Come al solito non aveva messo gli occhiali e vedeva tutto sfocato. C’era solo questo puntino luminoso davanti a lui, che si illuminava a cicli regolari come una stella pulsar. Dopo un po’, aveva capito che la luce era in realtà una brace di sigaretta e che – attaccato a quella sigaretta – c’era un ragazzo che aspirava voluttuosamente il fumo, e che lo stava fissando da un po’. Alla fine Andrea gli si era avvicinato e aveva chiesto: «Scusa se la domanda ma… Ti chiami Luca?». Aveva anche lui lo sguardo un po’ perso, come se avesse dimenticato gli occhiali.

E ovviamente no, lui non si chiamava Luca. Ma la loro storia era incominciata così, e aveva sempre pensato che quella frase così pretestuosa fosse una maniera molto poetica, per iniziare un amore. Dentro, in una specie di palestra occupata, suonavano un genere indefinibile e aveva visto Andrea ballare come se lui non esistesse nemmeno, come se tutto il mondo non esistesse. Muoveva le braccia in modo scoordinato e aveva una certa sensualità sghemba, sembrava volersi far possedere da ogni nota. Mentre lo guardava ballare si era sentito, per la prima volta da tanto tempo, felice di stare nel posto dov’era, in quell’istante, in quel corpo così straniero.

Andrea aveva meno di vent’anni e l’aspetto ossuto, da tossico. Vestiva sempre con certi maglioni anonimi e sformati e metteva sciarpe dai colori smorti, ordinari, come se volesse mascherare con toni mimetici la sua totale estraneità alle norme comuni del mondo. Si era presentato come uno studente di Filosofia, ma presto aveva scoperto che di studioso aveva ben poco. Aveva occhi grigioverdi in tono col vestiario, sempre opachi, ma inspiegabilmente penetranti.

Era stato Andrea a sverginarlo, malgrado fosse ben più giovane di lui, qualche settimana dopo il loro primo incontro.  Dopo essere venuto Andrea era rimasto a lungo immobile, dentro, e lui aveva sentito il suo corpo perdere man mano la propria rigidità. Erano rimasti così, Andrea con le mani appoggiate al suo petto, in quiete. Un orologio appeso alla parete scandiva il passare del tempo, spaccava il silenzio con ticchettii feroci. I loro corpi erano così diversi: spigoloso e fragile quello di Andrea, informe e tendente alla pinguedine il suo. Andrea gli aveva detto che era il ragazzo più bello che avesse mai conosciuto. Lui aveva risposto che non ci avrebbe mai creduto, nemmeno sotto tortura.

Eppure era come se si fosse dischiuso un intero orizzonte di possibilità: di essere guardato, di essere amato, di poter godere del corpo di Andrea. Si rendeva conto della banalità di tutte quelle scoperte, e di come tutta l’umanità, prima di lui, avesse sperimentato le stesse sensazioni e le stesse emozioni nella precisa sequenza, eppure non gli importava. Era la trappola della sua specie: una sottospecie forse degenerata, ma pur sempre un ingranaggio della realtà naturale. E pure in questa consapevolezza, gli sembrava di stare vivendo in una realtà molto più dolce e gentile di quella in cui si era convinto, negli anni della solitudine, di essere destinato a vivere.

All’inizio – per un breve periodo – aveva avuto l’illusione di poterlo davvero sentire risuonare nella sua testa, quello che Andrea pensava. Ma ben presto era arrivata quella barriera invisibile, come un foglio di cellophane, a tenerli separati in modo impalpabile. Una volta, Andrea gli aveva detto che, per lui, le parole erano come oggetti scagliati nello spazio: a volte morbide e giocose come palloni di gommapiuma, ma più spesso dure e affilate, come corpi contundenti. Le sue parole in particolare, diceva, erano come armi che non riusciva a disinnescare. Ma d’altra parte anche il silenzio, per Andrea, era una forma di tortura.

Così erano andati avanti per mesi, forse anni, senza riuscire mai a incontrarsi sulla stessa frequenza. Andrea aveva iniziato a bere parecchio, verso la fine non sembrava interessato ad altro. Lui a volte gli faceva compagnia, anche se detestava il sapore di quei liquidi scadenti che compravano al discount. Qualche sera, mentre stavano accoccolati sul divano a gonfiarsi di birra davanti alla televisione, i loro sguardi si incrociavano e lui chiedeva a Andrea di fare l’amore. Andrea bofonchiava qualcosa, poi si lasciava scivolare a terra, gli abbassava a forza i pantaloni della tuta e glielo prendeva in bocca. Appena aveva finito correva in bagno a sputare, per un po’ poteva sentirlo armeggiare con il collutorio. Poi tornava a sedersi sul divano, cambiava canale.

A letto Andrea gli chiedeva sempre di abbracciarlo, da dietro. Diceva che senza il suo abbraccio non riusciva ad addormentarsi. Però nel sonno a volte si divincolava, cercava di allontanarsi. Al mattino non si guardavano neanche. Lui si alzava per andare a lavoro e Andrea restava a letto, immobile. Aveva gli occhi di un cane abbandonato.

Quell’estate si era presentata fin da subito come la più calda dell’ultimo secolo, i telegiornali non perdevano occasione di ricordarlo. Sprofondato sul divano, Andrea continuava a cambiare canale, ma nessun programma sembrava di suo gradimento. «Ti lascio», gli aveva detto. «Non stiamo nemmeno insieme, lo vedi. È la cosa naturale da fare.». Non ricordava molto delle parole che erano seguite, ma aveva ancora bene impresso il suo tono, quasi spavaldo, e lo sguardo che teneva ostinatamente fisso su di un punto imprecisato del muro. Molte mosche sbattevano contro la finestra del salotto, cercando una via di fuga.

Pochi giorni dopo che se ne era andato lo aveva visto per strada a braccetto di un altro tizio, incredibilmente simile a lui. Andrea aveva un sorriso radioso e lo aveva chiamato dall’altro lato della strada. Lui aveva abbassato lo sguardo, in segno di resa. Il caldo era soffocante, tutto il mondo sembrava volgere all’estinzione.

***

Del periodo che era seguito, ricordava ben poco. Ma ora c’erano altri problemi a cui pensare. Trovare un posto caldo dove passare la notte, ad esempio. Qualcosa da bere: era altrettanto urgente. Sentiva persino l’impellenza di nutrirsi, uno dei bisogni che non era ancora riuscito a estirpare. Avanzava nella penombra di quel paesino-fantasma come accecato, muovendosi a tentoni. Sentiva ancora quel ronzio conficcato nella testa, o forse era nell’aria: vibrazioni arrivavano da un punto imprecisato e lontano. C’erano luci ad attirarlo, e calore, forse.

Era la classica sagra del paese, di quelle organizzate al finire di tutto, quando i turisti se ne sono ormai andati e rimane solo la gente del posto a combattere la malinconia della nuova stagione. Ora che ci pensava quello era proprio il periodo giusto, da quelle parti ogni paesino organizzava la sua Festa: era stato fortunato. C’era un enorme capannone con distese di tavoloni di plastica e le tovaglie di stoffa, impregnate di vino. Una musica pacchiana, martellante, e un palco dove gli ubriachi andavano a dimenarsi. Si era avvicinato al bancone e aveva ordinato qualcosa da bere: subito si era sentito meglio, aveva quasi voglia di ballare. Ai margini del palco, nella penombra, figure emergevano dallo sfondo come fantasmi. Le aveva scrutate a lungo, una per una, rimanendo un po’in disparte. Una silhouette l’aveva particolarmente colpito.

Era una creatura grassoccia, sgraziata, chiaramente fuori luogo. Aveva forse trent’anni e trasudava solitudine da ogni poro. Senza distogliere lo sguardo, si era concesso una sigaretta. Ora anche il ragazzo lo stava guardando e sembrava volersi avvicinare, come attratto da qualcosa. Lui si era guardato le mani ossute, da tossico, si era sistemato la sciarpa ormai scolorita e poi gli era andato incontro, sfoderando la solita frase.

Sembrava incredibile, ma funzionava sempre.