Tutto il tempo del mondo

Mettiamo caso che hai diciassette anni, i muscoli tonici e nervosi pronti a scattare sotto la maglietta rossa che hai comprato a un concerto e che ti rende molto orgoglioso, anche se cerchi di non darlo a vedere. Sono i primi di giugno, la scuola sta per diventare un ricordo ed è sera, un profumo di aghi di pino portato dal vento per le vie della tua città. Sei in bici, sulla canna porti la ragazza che da un po’ di tempo ti tiene sveglio la notte e i suoi capelli sono fin troppo pericolosamente vicini al tuo naso. Fa un po’ caldo, senti le goccioline di sudore affiorare alla pelle ma il vento apparente della pedalata le fa evaporare subito e ti senti bene, sei in pace.

Hai il sospetto di essere innamorato, anche se non puoi esserne sicuro fino in fondo. Ti è già capitato altre volte di avvertire quel formicolio alla bocca dello stomaco, come avere una mano a titillarti le viscere e a schiacciarle dal di dentro. È una sensazione un po’ strana e ambigua, che non definiresti dolorosa né piacevole, più simile a un costante stato di allerta. Non ne hai parlato con nessuno: ancora non osi dare un nome a quello che provi, come se il farlo potesse in qualche modo confermare la diagnosi, quella sconcertante realtà che sta proprio lì, da qualche parte in fondo all’esofago ogni volta che le sei vicino.

Dopotutto hai solo diciassette anni, tua madre direbbe che c’è tempo, che imparerai a conoscerti, a dare il giusto nome alle cose. Ma non ti importa, e anche se sai che sulla carta esiste la possibilità di innamorarsi, di baciare una ragazza, addirittura di farci l’amore… Non sai nulla di queste cose, tu: sei solo un bambino, con un corpo teso e gonfio che ti sembra ridicolo e i desideri troppo ingombranti per essere contenuti. A volte ti sembra che gli altri possano leggerti in testa i pensieri, l’impressione è talmente reale che ti fa arrossire dalla testa ai piedi: non lo sopporti. Provi una vergogna sconfinata per tutto quello che viene dal tuo interno, che non riesci a controllare. Con la mente, con le parole provi ad ammaestrare le tue emozioni, a imporre loro un freno. Ma non funziona quasi mai.

Però stasera ti senti più leggero del solito, sarà l’estate che sta per sbocciare o il profumo di bagnoschiuma, quei capelli così vicini che potresti tuffarci il naso ma non puoi, i pochi centimetri che vi dividono restano pur sempre uno spazio sacro e proibito. Eppure hai l’impressione che lei si voglia appoggiare a te mentre continui a pedalare, e nel farlo continua a parlare, ti dice qualcosa che la tua mente riesce a stento a registrare ma che suona come musica, allora anche la distanza sembra farsi un po’ meno incolmabile. Poi siete arrivati, leghi la bicicletta alla palizzata e la aiuti a scavalcare, sollevandola per i fianchi. Lei accenna una smorfia che non riesci bene a interpretare e poi correte, insieme agli altri, nel parco.

Mettiamo caso che avete comprato qualche bottiglia di vodka e vi mettete tutti in cerchio, in mezzo al prato, tu tiri qualche sorsata e poi le allunghi la bottiglia, lei ride. Senti la lingua pizzicare, un bel calore nel petto. Lei ogni tanto dice qualcosa e nel sottolinearlo ti tocca il braccio, senti la pressione gentile dei suoi polpastrelli sotto la maglietta e i fasci muscolari irrigidirsi, al contatto. I vostri corpi sono così vicini, a vederli dall’esterno sembrerebbero inevitabilmente destinati a fondersi.

Poi la scena cambia. Siete nella penombra, sdraiati a pancia in su lungo il pendio erboso che domina il parco giochi. Tu e lei: gli altri, lontani, ne senti le risate e le frasi echeggiare sconnesse in lontananza. La sua mano sulla nuca, una pressione più forte. La forza di gravità che ti inchioda al suolo, ogni movimento che si fa lento e faticoso come se fossi in fondo a un abisso. Sposti lo sguardo sul suo viso e ti accorgi che lei ti stava già guardando da un po’. E di colpo lo sai, tutto quello che accadrà nell’istante successivo e in quello appena seguente. Esistono sequenze di movimenti così standardizzate, così ben codificate da risultare quasi banali. Pensi al rituale di corteggiamento di alcune specie di uccelli, può durare anche diverse settimane e basta una sola mossa sbagliata per rovinare tutto.

Non avresti mai immaginato che le labbra di una ragazza potessero essere così morbide, sapere di buono. Che sentire la sua lingua percorrerti il lobo delle orecchie, il calore del suo respiro arrivarti dentro potesse farti un effetto del genere, da farti tremare. Che il solo pensiero di poterla toccare, e quel preciso momento in cui hai realizzato che il suo corpo non era più qualcosa di irraggiungibile ma proprio lì, alla tua portata, ti potesse fare un effetto altrettanto intenso. Lei che ti chiede di baciarla ancora, la sua pelle da accarezzare, tutto questo ti sembra una promessa di felicità che non credi di meritare. Ne è valsa la pena, di aspettare, ti dice. Poi, dopo un tempo indefinito, senti le voci farsi più vicine.

Ora state ridendo. Anche i tuoi amici ridono, forse sono ubriachi. A dir la verità anche tu ti senti un po’ sbronzo, fingi di barcollare mentre ti alzi e ti accorgi che lei ti sta ancora tenendo la mano. Qualcuno propone di mangiare un boccone, non hai idea di che ore siano ma non importa, in questo momento tutto ti andrebbe bene perché sai che lei sarà ancora lì, domani, e che avete tutto il tempo del mondo. Li vedi allontanarsi verso la staccionata, rincorrendosi per raggiungere le bici, e sparire nel buio oltre i lampioni. Tu resti fermo, vuoi rimanere lì ancora un po’ a goderti la notte. Ti aspetto là: ho una certa fame, sai! ti ha detto lei, ridendo.

Nel parco giochi qualcuno ha piantato, parecchi anni fa, un filare di querce che sono cresciute senza troppi intralci, addossando grovigli di rami alla palizzata di recinzione come se volessero sostenerla. Il vento ne muove le estremità e il fruscio delle foglioline ancora giovani è come un linguaggio misterioso, appena sussurrato. Avranno più o meno l’età dei miei, pensi. Ne accarezzi le increspature sulla corteccia e ti senti come se stessi fluttuando in mezzo a un banco di nebbia calda, sospeso nell’atmosfera. Anche il tuo corpo, stasera, ha acquistato una nuova e inaspettata utilità. Respiri a pieni polmoni gli odori della notte e poi scatti, sei una macchina pronta a correre in eterno e allora corri, a lunghe falcate e senza sentire fatica, lungo tutto il periplo del parco. All’improvviso scarti di lato. Le mani afferrano il grigio rugginoso della staccionata, un colpo di reni e spicchi il volo, come un atleta olimpionico, nel buio.

E proprio in quel momento ti accorgi di qualcosa di insolito, perché rimani sospeso a mezz’aria ben oltre il tempo che ti saresti aspettato. Hai sentito come uno strappo e qualcosa di freddo incunearsi là sotto, vicino al bacino, ma non sei riuscito a localizzare bene la sensazione né la sua causa. Proprio sotto di te, una fila di spuntoni lanceolati sormonta la palizzata. Non ti eri mai reso conto di quanto fossero appuntiti, eppure l’hai scavalcata così tante volte quando eri ancora un bambino. Provi a muoverti, a spostare il baricentro in avanti per lasciarti cadere oltre, sul marciapiede, solo che qualcosa ti tiene bloccato. Allora abbassi lo sguardo e lo vedi, lo spuntone arrugginito conficcato proprio lì, nel tuo interno coscia, e più in basso qualcosa di scuro che fluisce giù, colorando gli arbusti che hanno parassitato il marciapiede. Porti la mano all’inguine e senti un calore bagnato che ti fa inorridire, mentre la consapevolezza ancora tarda ad arrivare.

Ti viene quasi da ridere. Ripensi a qualche mese prima, quando nell’ora di Scienze la professoressa ha spiegato il sistema circolatorio. L’arteria femorale, ne hai quasi la certezza, passa proprio da quelle parti. Ti senti un po’ strano, inebetito, i contorni delle cose pulsano e la vegetazione è così lussureggiante da sembrare irreale, le foglie di una quercia ti solleticano il viso mentre te ne stai lì, paralizzato. Poi provi a sollevarti, ma senti un dolore infinito trafiggerti tutto il fianco destro, mentre i tuoi jeans si trasformano in una specie di straccio bagnato. Hai solo peggiorato la situazione, povero idiota. Hai in testa questa parola, idiota, che continui a ripetere come un mantra, finché il suo significato non sfuma.

Provi a chiamare qualcuno, a urlare, ma come in un brutto sogno non ti esce nemmeno un filo di voce, solo un suono disarticolato come il lamento di una bestia al macello. Il sangue arterioso, a differenza di quello venoso, ha un colore rosso brillante dovuto alla sua ossigenazione. In caso di lesioni tende a fuoriuscire in fiotti di grande intensità, e se l’emorragia non viene bloccata si può morire nel giro di pochi minuti. Non ci sarebbe nemmeno il tempo per capire come tirarmi giù da qui, pensi. Dovrebbero chiamare prima l’ambulanza, poi i pompieri per segare via con il flessibile il paletto che ti ha infilzato. Dovrebbero portarti in ospedale ancora attaccato al pezzo di ferro, perché estrarre il corpo estraneo ti farebbe perdere quel poco di sangue che ancora ti resta. Non ci sarebbe tempo, pensi, non ci sarà tempo.

Mettiamo caso che, proprio in questo momento, ti ricordi di avere il cellulare ancora in tasca. Armeggi con l’orlo dei jeans, ma la posizione innaturale in cui sei bloccato ne ha teso il tessuto e rende l’operazione ben più complessa del necessario. Senti freddo. Il silenzio della città è straniante, solo un grillo nascosto da qualche parte tra i rami emette ciclicamente i sui versi. I grilli maschi producono il loro caratteristico suono sfregando le ali, come segnale di corteggiamento. Anche questo lo hai imparato a scuola tanti anni fa, te lo aveva spiegato il maestro delle Elementari, Mazzoni. Riesci a tirarti un po’ su, ti aggrappi a un ramo che sporge poco sopra di te ma la tua presa è molto debole e sai che crollerai. Ti sforzi di fare respiri profondi e regolari, come i segnali sonori dei grilli. Senti il tono asciutto e sicuro del tuo allenatore, la sua voce rauca mentre vi spiega come controllare la respirazione per placare l’ansia prima delle partite.

Il tuo dito sporco di sangue scorre la rubrica del telefono, grumi di pixel sfilano davanti ai tuoi occhi come in una slot machine. Alcuni numeri sono salvati solo col nome, ti ci soffermi maggiormente. La tua gamba destra è irriconoscibile, un brandello di carne da dare in pasto ai cani. Si fa largo una stanchezza strana, che non avevi mai sperimentato prima e che ha il retrogusto di una sconfitta. Senti il telefono scivolare via dalle dita. Tremi, ti viene da piangere. Idiota.

Allora, dimmi, che cosa faresti?

Perché sai, quel tipo lì, infilzato alla palizzata, sei proprio tu.