Vita di Ludovico Cantiello, piccionatore

Tutto era iniziato con una piccola macchiolina bianca quasi perfettamente sferica, incrostata al centro di una mattonella del suo balcone. Quel mattino lo ricordava bene: aveva aperto la porta-finestra che collegava la sua camera da letto al terrazzo e poi quella appena antistante. Quando aveva dovuto arredare casa aveva espressamente richiesto di installare i doppi vetri, perché la sua strada era parecchio trafficata e il rumore delle macchine non l’avrebbe lasciato dormire. Si era affacciato sul balcone ancora intorpidito dal sonno, ricevendo i raggi di un sole timido dritti in faccia. Poi l’aveva notata.

Era una merda, una merda di piccione.

La cosa l’aveva inquietato non poco. Da quando possedeva il dono della memoria aveva avuto il terrore degli uccelli, in particolar modo dei piccioni. Quelle bestie grasse e pigre, dagli occhi stolidi, lo atterrivano con i loro movimenti imprevedibili, senza grazia. Era sempre stato così: per strada faceva tutto il possibile per scansarli e ogni loro sbatacchiare d’ali lo faceva trasalire, tanto che a volte doveva appoggiarsi a un qualche muro per non perdere i sensi. E poi i piccioni portavano malattie, si sapeva.

Spesso sognava di trovarsi al centro di una piazza, completamente nudo. Una folla di pensionati ghignanti si avvicinava a passetti lenti ma inesorabili. Lui non poteva scappare. E mentre tentava di coprire le sue vergogne i pensionati tiravano fuori dai pastrani manciate di pane secco e gliele scagliavano contro, continuando a ridacchiare in una sinistra sincronia. Il pane aveva una consistenza insolita, friabile ma al contempo appiccicosa, e aderiva alla sua pelle senza che potesse strapparselo via: allora si grattava come un forsennato, si sarebbe anche scorticato la pelle di dosso se avesse potuto ma niente, le molliche gli rimanevano attaccate addosso. Finché non si accorgeva che i pensionati non erano più tali, si erano tramutati in enormi piccioni sghignazzanti pronti a divorarlo. A ogni risveglio gli rimaneva impresso qualche dettaglio in più: un’iride arancione, un becco aguzzo e vorace, uno sguardo particolarmente inquietante.

Tutto questo forse spiegava perché quel giorno si fosse sentito tanto inquieto. A maggior ragione in quanto lui, uomo meticoloso e accorto, si era fin dal principio prodigato per tenere i pennuti alla larga dalla sua dimora. Aveva steso su ogni cornicione file di spuntoni metallici, di quelli che si usano per proteggere i monumenti dalle deiezioni aviarie, per impedir loro di posarsi; poi aveva appeso lunghe striscioline di carta stagnola alle ringhiere, perché sapeva che quegli stupidi non potevano soffrire il riflesso della luce. Infine aveva comprato un dissuasore a ultrasuoni e ogni giorno passava e ripassava uno straccio intriso di candeggina al suolo, sperando che l’odore chimico li avrebbe tenuti lontani. Per anni la sua ferrea disciplina era riuscita nell’intento, consentendogli una vita tranquilla e sicura – ancorché solitaria – al riparo del suo monolocale.

Ma da quel giorno le cose avevano preso una piega diversa. Vedere quella macchiolina – di certo latrice delle peggiori malattie immaginabili – violentare il pavimento del balcone gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene. In uno stato di trance si era abbarbicato alla maniglia della porta lottando con tutte le forze per non svenire. Se avesse perso coscienza – pensava – i piccioni avrebbero approfittato della sua debolezza per far scempio del suo corpo, mutilandolo e insozzandolo con la loro lordura. No, doveva restare vigile. A stento era riuscito a richiudere la porta-finestra e a sbattersi a letto, dove era rimasto a lungo immobile come un animale atterrito. C’era voluta qualche ora, oltre a una notevole forza di volontà, per trovare il coraggio di alzarsi, prendere lo straccio e far sparire con generose dosi di Lysoform quell’abominio gettato chissà come nel bel mezzo del suo terrazzo.

Forse – si ripeteva per rassicurarsi – era stata soltanto una casualità, una traiettoria un po’ insolita che il vento aveva fatto precipitare proprio lì. Eppure in fondo all’animo sapeva bene che non poteva essere un caso, che quella macchia di merda era un segnale ben preciso, diretto a lui. Una dichiarazione di guerra a tutti gli effetti. E così anche lui si era armato, aveva raddoppiato la batteria di ringhiere anti-piccione e comprato altri tre diffusori a ultrasuoni, uno per ogni angolo del balcone: a volte gli pareva di captarne il ronzio, appena oltre la soglia della coscienza, come un sinistro avvertimento subliminale. Altre volte nel cuore della notte udiva strani ticchettii provenire dall’esterno, come se qualcosa stesse becchettando la finestra: allora si strizzava la testa tra due cuscini e respirava forte, ripetendo nella testa un mantra buddhista che aveva appreso tanti anni prima a un corso di Yoga.

Ogni volta che trovava il coraggio di alzarsi e tirar su le tapparelle per gettare l’occhio oltre alle tende, però, non riusciva mai a scorgere alcunché di sospetto. E nondimeno al mattino capitava sempre più spesso di ritrovare qualche rametto sparso sul pavimento, come se quelle bestie stessero cercando di costruire un nido proprio lì. A volte pensava di essere pazzo, che tutto quanto fosse una gigantesca allucinazione dettata dall’insonnia ormai cronica, ma per quanto si sforzasse di rimanere lucido e razionale i suoi pensieri continuavano a deragliare, a scivolare via in fiotti diretti sempre a loro.

E loro lo sapevano. Lo sentivano ansimare oltre i doppi-vetri, tutto rannicchiato come un cagnolino nel suo sudario di lenzuola. Erano di certo in grado di percepire i suoni entro una gamma molto più ampia di quella umana e questo li rendeva ancora più subdoli, perché dietro al loro aspetto goffo e inebetito nascondevano la capacità di elaborare complesse macchinazioni. Captando ogni suono che lui potesse emettere nel corso di una giornata erano riusciti a ricostruire l’intera pianta del suo appartamento, avevano maturato un’immagine mentale del tutto particolareggiata della sua vita e delle sue abitudini. Sapevano a che ora accendeva il gas per farsi il caffè e con quali video si masturbava, erano in grado di cogliere dall’inflessione della sua voce i sentimenti che provava nei confronti delle persone che ancora gli telefonavano. E sicuramente avevano notato come negli ultimi tempi il suo tono si fosse fatto sempre più acuto e squittente: un bel topolino impaurito, da mettere sotto al becco.

Quando aveva provato a uscire di casa, non fosse altro che per rimpinguare le scorte alimentari che ormai andavano esaurendosi, era stato preda del peggior attacco di panico che avesse mai sperimentato e – bisogna precisarlo – aveva già maturato una discreta esperienza in materia. Là fuori era ormai il loro regno, e ovunque andasse poteva sorprendere alcune di quelle creature osservarlo, appollaiate sui cornicioni o sulle fermate dei tram. Gli spudorati ingombravano i marciapiedi, si gettavano sotto ai piedi dei passanti senza alcun timore e saltellando qua e là se ne andavano sempre in cerca di cibo, tubando di soddisfazione nel vedere la sua faccia atterrita.

Di ritorno dal supermercato un enorme esemplare dalla livrea iridescente gli si era parato davanti, gonfiando il petto e puntando col becco proprio nella sua direzione. Allora aveva visto la geometria del mondo cambiare le sue regole, le linee parallele delle finestre incrociarsi e un vortice nero di dolore aggrovigliargli il petto. D’improvviso tutto l’ossigeno era stato risucchiato dall’atmosfera e lui aveva mollato i due grossi borsoni dell’Esselunga che si trascinava dietro, mentre le giunture delle gambe cedevano. Barattoli di passata di pomodoro erano rotolati sul selciato davanti ai suoi occhi e poi era morto, o almeno così aveva pensato.

Inutile dire che quella spedizione lo aveva gettato nello sconforto più totale. Ma ciò che lo aveva turbato ancor di più del panico in sé erano state le espressioni dei passanti al suo risveglio: erano gli stessi sguardi che avrebbero potuto rivolgere a un malato terminale, e per la prima volta nella sua esistenza si era sentito di appartenere a una razza diversa, inferiore a quella umana. Era stato allora, appena dopo essersi rinchiuso alle spalle la porta blindata del suo appartamento, che aveva preso la decisione.

Non sarebbe uscito di casa, mai più. Dopotutto ormai era possibile soddisfare qualsiasi necessità ordinando su Internet, si sarebbe quindi fatto consegnare tutto ciò di cui aveva bisogno a domicilio, socchiudendo la porta solo per lo stretto necessario a trascinare dentro i pacchi. Sul conto corrente aveva ancora una somma cospicua, frutto di un’eredità che gli avrebbe permesso di sopravvivere diversi anni ancora rimanendo entro i limiti di una certa agiatezza. Per quanto riguardava il ricambio d’aria, lo smaltimento dei rifiuti, nonché eventuali infortuni domestici che sarebbero potuti intercorrere si rendeva conto che, alla lunga, tutto ciò avrebbe potuto costituire un problema. Però aveva un po’ di tempo per pensarci, doveva mantenere la calma perché la razionalità era l’unica arma in suo possesso per poter sopravvivere. Aveva solo bisogno di un piano.

In primo luogo aveva capito che avrebbe dovuto abbandonare il suo bastione esterno, il balcone: era l’inevitabile prezzo da pagare in cambio della sua sicurezza. Le tapparelle sarebbero rimaste sempre serrate, cascasse il mondo, non poteva permettersi il rischio che per sbaglio anche solo una piuma di quelle schifezze potesse cadere all’interno del suo rifugio. Allo stesso tempo aveva bisogno di contrattaccare: non poteva lasciargliela vinta così facilmente, permettendo loro di riprodursi senza freni là fuori. Avrebbero creato un esercito di piccioni sempre più grossi e voraci e aggressivi, e alla fine non ci sarebbe stato più scampo.

Aveva quindi architettato un modo per farne fuori qualcuno rimanendo al sicuro entro le mura domestiche. La parete del bagno che dava sulla strada aveva un foro del diametro di circa venti centimetri appena sopra al pavimento, che un tempo era stato forse lo sfiato di una cappa o di un condizionatore. Il foro era stato tappato da un sottile strato di cartongesso, il che in effetti lo rendeva un punto particolarmente vulnerabile alle penetrazioni di agenti esterni. Tuttavia, esso rappresentava al contempo una possibilità, una flebile speranza di colpire un nemico dalle forze così soverchianti. Era bastato fare un po’ di ricerche, farsi spedire tutti i pezzi giusti e mettere in pratica quelle poche competenze di bricolage che possedeva.

Il sistema era molto semplice: due cilindri cavi di plexiglas rinforzato, del tutto trasparenti, nei quali aveva praticato un foro sufficientemente grande perché un piccione di media taglia potesse entrarvi con facilità. Aveva poi ideato un sistema a scatto massimamente sicuro che consentiva ai due cilindri, l’uno innestato nell’altro, di aprirsi e chiudersi a suo piacimento. Quando il marchingegno era aperto metteva in bella mostra un anfratto che lui poteva riempire di mais, becchime e ogni sorta di rifiuto alimentare. A quel punto faceva scivolare fuori il tubo: a tal proposito aveva dovuto – nel corso di una giornata memorabile – frantumare la parte di muro che ostruiva il foro e ancora aveva ben impresso il batticuore che lo aveva colto appena prima di compiere il gesto. Quindi, faceva scivolare all’esterno il tubo di plexiglas aperto e farcito di leccornie per piccioni. Il tubo restava sospeso in aria sporgendo di qualche spanna appena fuori al suo bagno, lo aveva ben ancorato dall’interno con un ingegnoso sistema di leve e molle che gli consentivano anche di manovrarlo dall’interno. Poi si sdraiava a terra, scrutando nell’estremità del tubo come un cecchino.

Prima o poi era inevitabile, qualcuno ci cascava: a volte un esemplare più giovane, con la foga e l’audacia tipiche degli adolescenti. Altre volte era una coppia, in cerca di un posto sicuro dove costruire il nido, o un vecchio piccione grasso e malandato con le gambe incrostate di tumori. Quando li vedeva posarsi sul tubo e guardare circospetti nel foro, notare l’abbondanza di cibo e infine saltare a piè pari nella trappola, il suo cuore faceva le capriole di gioia. Bastava tirare una leva e i fusi di plexiglas ruotavano sul loro asse, intrappolando per sempre i malcapitati. A quel punto bastava aspettare.

Poteva spiare dall’interno tutte le loro ultime mosse. I piccioni, ingannati dalla trasparenza, non comprendevano bene di trovarsi in un ambiente completamente chiuso e si scagliavano contro il plexiglas come mosche alle finestre. Il rumore che facevano sbattendo il becco lo inorridiva, ma al contempo lo mandava in estasi. Quando finivano tutto il cibo – ci mettevano sempre poche ore, quelle bestiacce voraci – diventavano ancora più nervosi nei loro tentativi di fuga. A volte sbattevano così forte contro le pareti della trappola da perdere sangue e rimanere intontiti, ma in tutti i casi i loro tentativi erano destinati a fallire. A volte li uccideva la carenza di ossigeno, altre ancora era la sete a piegarli. Sia quel che sia lui godeva come un matto, aveva finalmente la sua rivincita. Solo quando era assolutamente sicuro che il piccione fosse morto ribaltava il tubo e poi lo apriva; aveva deciso di compiere questa operazione sempre nel cuore della notte, quando la strada era silenziosa e poteva sentire, se tendeva bene l’orecchio, il tonfo delle sue vittime sull’asfalto.

Le operazioni che seguivano erano di gran lunga più ingrate, perché doveva far rientrare il tubo per poter ricaricare la trappola. Stava sempre molto attento a non sfiorarne le superfici, poiché erano state sicuramente contaminate e per questa ragione provvedeva a sanificarle con cura, con un nutrito arsenale di igienizzanti industriali che si era procurato spacciandosi per il responsabile di una ditta di pulizie. Poi riempiva nuovamente di cibo la cavità del tubo e lo faceva scivolare fuori, appena prima che il chiarore dell’alba potesse capolinare dalla sua piccola finestra sul mondo.

Era quello in effetti l’unico angolo della casa dal quale poteva gettare lo sguardo verso l’ambiente circostante, sebbene da una prospettiva forzata. Per quanto ne sapeva poteva essere cambiato tutto o niente, là fuori, magari avevano eletto un nuovo sindaco, la borsa era crollata, le famiglie andavano in rovina. Alla televisione non aveva mai dato troppo retta, e alla fine aveva preso la decisione di tranciare con una forbice il filo dell’antenna. La verità era che di tutto quel che accadeva all’esterno gliene importava sempre meno. Eccezion fatta per il suo tubo.

Passava le intere giornate come ipnotizzato, osservando i pennuti contorcersi fino al momento in cui tiravano le cuoia. Aveva comprato una risma di quaderni sui quali appuntava ogni dettaglio delle sue esecuzioni, la data e l’ora di ogni decesso, i particolari dell’agonia che maggiormente lo avevano colpito. In quei diari aveva iniziato anche a scrivere di sé, della sua storia e di come la gioia di poter sterminare i piccioni lo avesse trasformato in una persona nuova, che non aveva più paura. Una persona felice, con uno scopo. Per non dimenticarselo mai aveva scritto il suo nome sulla copertina di ogni quaderno: Ludovico Cantiello, piccionatore. Aveva d’improvviso capito tutta la sua vanità, la superficialità con cui aveva sperperato gli anni migliori della sua vita alla ricerca di una soddisfazione che non poteva arrivare mai, perché non aveva il cuore predisposto a coglierla. Ora un qualche Dio gli aveva concesso questa grazia, e lui la stava mettendo a frutto.

Per tanti anni aveva covato una rabbia sotterranea, un fastidio che non riusciva bene a spiegarsi perché non era diretto a nulla, non aveva oggetto. Quell’emozione inespressa lo aveva consumato lentamente, come in quella tortura cinese dove una gocciolina cade inesorabile sul cranio del prigioniero fino a condurlo alla pazzia e alla morte. Solo che, nel suo caso, la gocciolina proveniva dall’interno. Soltanto adesso che non era più prigioniero era in grado di ricostruire il puzzle, riconducendo ogni tassello al posto giusto per poter finalmente rimirare il quadro nella sua interezza.

Non aveva mai sperimentato un tale appagamento psicofisico prima di allora: la felicità era tale e così prolungata da fargli quasi dimenticare chi era, comprese quelle piccole incombenze terrene che ancora di tanto in tanto tornavano a disturbare il suo stato di estasi. Se pure si poteva ancora parlare di un corpo fatto di materiale organico, con tutte le necessità del caso, il suo era però un corpo privo d’organi, un mero contenitore di Spirito destinato al decadimento. Così lasciava che il tempo fluisse, aveva smesso ormai da mesi di lavarsi e osservava con curiosità la pelle raggrinzirsi e assumere sfumature che un tempo avrebbe trovato ripugnanti. Il cibo e il sesso, nei quali a tratti si era rifugiato in passato come panacee per il suo male incurabile, d’improvviso avevano smesso di esercitare il loro fascino perverso. Aveva trascinato una poltrona dal salotto al bagno e lì passava gran parte dei suoi giorni e delle notti, sorridendo.

Quando la prima lettera si era materializzata proprio davanti alla porta d’ingresso, evidentemente fatta scivolare sotto allo stipite da qualche condomino, non ci aveva dato troppo peso. Lì era restata, e dopo qualche settimana ne era comparsa un’altra e poi un’altra ancora. Assiso al suo trono regale, nel cesso, ogni tanto udiva riecheggiare qualche tonfo lontano, suoni e voci che non era in grado di ricondurre a volti. Che parlottassero pure alle sue spalle, gli stolti: non erano in fondo così dissimili dai piccioni, che ormai costituivano la sua unica ragione di vita e di attenzione.

E così, mentre mucchi di lettere ingiallivano sulla moquette, i cadaveri dei piccioni continuavano ad ammassarsi sul suolo urbano e i netturbini continuavano a raccattarli, incerti se essere schifati, preoccupati o divertiti dalla situazione. Ormai da mesi la porta di casa sua era rimasta serrata malgrado qualche illuso si ostinasse a bussare ogni giorno, con un’insistenza che un tempo lo avrebbe infastidito non poco.

Sebbene il suo appetito fosse ridotto ai minimi termini le scorte di cibo si erano inesorabilmente consumate: aveva accolto con serenità la profanazione dell’ultima scatoletta di tonno, il momento in cui aveva gettato nel tubo l’ultimo granello di mais che era riuscito a scovare in un angolo della cucina. Aveva finito le esche. Allora aveva guardato l’essere che lo osservava dallo specchio del bagno e gli aveva sorriso di rimando, mentre si tastava la pelle che cascava dai fianchi come per scegliere il punto dal quale iniziare. Per fortuna negli anni aveva accumulato discrete riserve di grasso, dopotutto era sempre stato un uomo previdente. E i piccioni erano come i maiali, mangiavano di tutto.

La casa era piena di luce, tutto procedeva verso il meglio.