La città vista dal basso

La città in agosto sembra un tumore maligno. Ti ruba l’ossigeno, il sangue, nasconde il cielo dietro una patina di calore e smog. Persino camminare diventa un tormento: uno cerca di andare avanti ma il bitume appiccicoso, il sudore, l’afa e le macchine fanno di tutto per renderti la vita insopportabile. In agosto tutto sembra sciogliersi, liquefarsi, appiattirsi al suolo come una colata di cemento. È anche per questo che, appena la gente ne ha l’opportunità, scappa lontano alla ricerca di un po’ di frescura. Mica scemi, dico io. Ultimamente va molto di moda la Tunisia, che è anche il paese da dove vengo io. Lì c’è forse più caldo che qua, ma è un caldo diverso, più sano: ricordo al mio paese mi sedevo sempre sopra a una seggiolina, di fianco a mio nonno, e con lui prendevo il tè guardando le navi petroliere che passavano all’orizzonte. Allora c’era caldo, sì, ma era un caldo buono.

E poi c’era il vento, non si sudava mai.

Qui è tutto diverso. Uno pensa all’Italia e si immagina il sole, il mare, le Alpi. Mica pensa che ci possano essere delle pianure piatte come tavole, dove non tira mai un alito di vento. E poi sarà che è agosto e fa un caldo della madonna, sarà che qui sono straniero e la gente mi guarda storto, sarà quello che volete… ma io questa mattina mica ci volevo andare a lavorare. Nossignori, mi sono svegliato con la testa che ronzava e una voglia pazzesca di bestemmiare, ho morso il cuscino zuppo di sudore e ho pensato: “Al lavoro, oggi, neanche morto”.

Comunque, alla fine mi sono alzato dal letto: pantaloni, sigaretta ed ero già in strada. Come tutte le mattine, domeniche escluse. Come tutte le fottute mattine in questo fottuto paese. Neanche mi sono dato una sciacquata, per levarmi via il caldo della notte: e che mi lavo a fare, se tra venti minuti sarò sopra a un tetto a sudare? E poi avercela, la doccia, nel mio appartamento! Solo una camera da letto, il balconcino per fumare e un cesso diviso da un separé.

I giardini sono l’unico angolo della città dove mi piace stare: sembrano un baluardo, un ultimo avamposto di resistenza contro l’avanzata del cemento che tutto appiattisce. Eppure anch’essi sono una specie di finzione, un piccolo errore del sistema: come se bastasse una pianta a cancellare l’aberrazione, come se i bambini che ci giocano fossero davvero liberi e felici. Ti costruiscono una prigione intorno e poi ci mettono dentro un bel giardino: questa, è la loro libertà. Eppure durante la pausa pranzo mi piace sdraiarmi sotto a un platano e guardare il sole che fa capolino tra i rami. La gente pensa che io sia un drogato, ma a me non importa.

Mi piace guardare il sole. Forse è per questa ragione che preferisco lavorare sui tetti. Dentro alle case c’è lo stesso caldo, se non di più, e poi la polvere ti entra nelle narici finché non crepi di tosse. All’aperto invece ti puoi godere quel poco di vento che tira e, soprattutto, puoi guardarti intorno. Se sei fortunato e se il palazzo è bello alto si può vedere tutta la città e anche oltre, fino alle colline. Mica mi piace la città, ma le colline… beh, quelle ti aprono il cuore. E quest’oggi la mattina era una promessa: una brezza sottile ha dissipato la foschia e l’orizzonte si è aperto, come un velo squarciato. Dal tetto si vedeva proprio tutto, persino le sagome incerte degli Appennini.

Bisogna stare attenti, quassù in alto: spesso ci spingiamo fino al cornicione per sistemare le grondaie e guardiamo giù, di sottecchi. Ogni volta che mi sporgo sento sempre la stessa vertigine, come se l’abisso mi chiamasse a sé, e mi piace sentire i brividi che scorrono sulla pelle anche se fa caldo. Un giorno è venuto un tizio in giacca e cravatta, e ci ha spiegato un mucchio di cose da indossare per non cadere giù: scarpe speciali, imbragatura, guanti, casco. Appena se ne è andato siamo scoppiati a ridere: e chi ce le ha, le imbragature? E poi è estate, bisogna stare leggeri… Ma soprattutto, a cosa cazzo serve il casco se cadi giù da venti metri? Anche il capo non ha fatto storie: “basta che non mi mandate nei casini”, ha detto.

Ora che il sole sta tramontando però la città non sembra più nemica come prima: le ombre si stendono oblunghe e formano un dedalo di forme strane sul suolo. Da dove sono ora posso vedere le nuvole rosse che fanno capolino da lontano, e si muovono veloci, verso est.

Forse verrà la pioggia. Ci vorrebbe proprio una bella pioggia che si porti via tutto, il caldo, la stanchezza, il lavoro, la città. Da dove sono ora la città la vedo dal basso, e il cielo è il mio pavimento. Un bambino che stava giocando a pallone mi ha visto e si è avvicinato.

“Che cosa ci fa quell’uomo sdraiato a terra? Mamma?”

Vista dal basso la città è tutta un’altra cosa. Lontano c’è qualcuno che urla, o forse mi sta soltanto parlando. C’è un vento leggero che mi accarezza i capelli, e il mare ondeggia al crepuscolo attraversato dalle navi petroliere. Mio nonno mi mette una mano sulla spalla e mi chiama per nome. È ora di rientrare a casa, Mohammed.

L’avevo quasi scordato, il sapore del tè.