L’infinito

La demolizione era avvenuta come previsto alle ore 14.01 e tutto si era svolto secondo i piani. Un lavoro da manuale. I piloni di cemento armato si erano accartocciati come fogli di stagnola, trascinando con sé lo scheletro in muratura del gigantesco animale morente. Lungo tutto il perimetro della zona rossa era stato fissato un nastro da cantiere e i vigili urbani tenevano a bada i curiosi che si avvicinavano troppo. Allo scoppiare delle cariche ci fu una specie di boato un po’ fiacco, soffocato, e tutti ebbero il tempo di trattenere il respiro dinnanzi al crollo del Palazzo, osservandolo dissolversi in una nuvola di pulviscolo.

I vecchi pensarono che tutto col tempo si sgretola e con la consolazione di essere sopravvissuti un giorno di più batterono le mani, entusiasticamente. I bambini a bocca aperta si chiesero, per un istante, se quello fosse un nuovo programma televisivo oppure la realtà; poi guardarono i loro nonni alzare le braccia come allo stadio, e capirono che anche loro dovevano applaudire. I vigili distribuivano bonari sguardi di disapprovazione a quei pochi che osavano sporgersi oltre le transenne, e persino il sindaco pareva meno depresso del solito.

Quel giorno Achille si era alzato di buon mattino, come fanno tutti i vecchi. Aveva afferrato gli occhiali, calzato le pantofole e bestemmiato forte perché doveva calarsi troppe pillole e quelle gli andavano sempre di traverso, tant’è che gli veniva sempre un fastidioso bruciore alla trachea, che rimaneva diversi minuti. Ogni mattino compiva quegli stessi rituali, nel medesimo ordine e con le stesse tempistiche, da ormai sette anni. Da quando lei non c’era più. Spalancava le finestre e gettava una rapida occhiata all’esterno, come per assicurarsi che tutto fosse a posto, sotto controllo, e che durante la notte il mondo là fuori non fosse scomparso, risucchiato nel nulla per volere di un qualche dio capriccioso. E ogni mattino giungeva lo stesso muro grigio a cozzare contro il suo sguardo, qualche decina di metri più avanti. Una cortina di ferro, che gli sbarrava ogni orizzonte.

Quando avevano costruito il Palazzo Achille era ancora molto piccolo, e per questo gli rimanevano solo pochi e sbiaditi frammenti di come fosse il panorama dal suo balcone, prima. Ad esempio, gli tornava in mente questa immagine di un azzurro cristallino e quasi violento sparato davanti agli occhi, e di un gabbiano che svolazzava poco oltre il balcone. E lui che chiedeva, stupito: “Che cos’è quello?”. Allora ogni cosa poteva essere chiamata per nome.

Da quasi sette anni, ogni mattina, Achille si preparava una moka per due e poi sorseggiava il caffè seduto di fronte alla finestra della cucina, osservando le vite dei suoi vicini. Quello era, di solito, il momento più felice della giornata. Il Palazzo era stato edificato durante i primi anni ’60, nel contesto di un ambizioso piano di Edilizia Popolare. Pur essendo stato venduto all’opinione pubblica come un esperimento all’avanguardia, ben presto tutti si erano accorti che aveva costi di manutenzione insostenibili per qualsiasi gestore pubblico, a maggior ragione trattandosi di case popolari. Così, nel corso degli anni i canoni erano inevitabilmente lievitati, e le condizioni sempre più fatiscenti dell’edificio avevano convinto i più a trasferirsi altrove. Nel giro di due decenni erano rimasti al Palazzo solo cinque nuclei familiari, e ben presto non ci fu più nessuno. Quel posto fu come dimenticato, bandito per sempre dalla memoria umana, mentre già l’edera ne avviluppava le mura.

Anche se nessuno sembrava più badarci, Achille aveva preso l’abitudine di osservare il Palazzo e la vegetazione circostante: spesso arrivavano animali selvatici a trovare riparo, rimasti intrappolati chissà come nella notte metropolitana. Altre volte erano esseri umani ad aggirarsi fra quelle mura con fare losco, accendendo fuochi e urlando parole minacciose. Una volta aveva persino chiamato la polizia. Ma il Palazzo era un luogo pieno di vita, e di questo sembrava accorgersene solo Achille. Un giorno erano arrivati in tanti, con bandiere e fumogeni, e avevano occupato il Palazzo. A nessuno era importato granché, e con i pochi rimasti Achille aveva stretto negli anni un rapporto di garbata complicità. Si divertiva a osservarne i gesti, a carpire brandelli di discorso in quelle cadenze straniere, a imparare la loro lingua e le loro passioni. Con alcuni ci parlava, persino, e loro per strada lo salutavano.

All’inizio aveva odiato quell’ammasso di mattoni calato dall’alto, quasi a impedirgli ogni accesso all’orizzonte, alla sua trascendenza; ma col tempo aveva imparato a conoscerlo, ad apprezzarne la solidità e la quieta resistenza. E chiamava per nome i ragazzi che giocavano nel balcone esattamente di fronte al suo, li salutava ogni mattino prima che andassero a scuola. Riconosceva i loro volti, riconosceva le loro voci.

La demolizione era avvenuta, come previsto, alle ore 14.01. Tutto si era svolto secondo i piani.