Catch and release

Il Luccio osservava il mondo dal suo stagno, o almeno quella piccola porzione del mondo che riusciva a percepire. Viveva in quel posto da tempo immemore, da quando una mano di bambino lo aveva gettato nell’acqua fangosa, ai tempi in cui era poco più che un uovo appena dischiuso. Aveva pochi ricordi di quei momenti: gli anni si accumulavano e al passare di ognuno la memoria si faceva via via sempre più labile, come il fondale che si sgretola offrendo al suo sguardo sempre qualcosa da inghiottire, da mangiare. C’erano stati forse dei fratelli, esseri palpitanti come lui, portati anch’essi nella solitudine dello stagno da quella piccola mano nervosa: non erano sopravvissuti all’inverno. Il fondale se li era presi a sé, tutti tranne uno. E quell’uno era rimasto da solo, per tutto quello che restava della sua vita.

Una volta cresciuto, in assenza di predatori naturali, il Luccio aveva pian piano conquistato ogni centimetro di quella casa dove era stato – non per sua volontà – recluso. Ed era diventato il Re dello Stagno. Non si potrebbe del resto chiamare diversamente un luogo del genere, nascosto agli occhi del mondo, poco più che una pozzanghera delimitata dagli arbusti, al centro del bosco. Solo un sentiero segreto permetteva alla razza degli uomini di accedere all’esile ripa: e così accadeva che ogni tanto giungesse qualche viandante della collina, qualche schiera di bambini avventurosi, qualche pescatore alle prime armi. Il Luccio aveva imparato a conoscere gli uomini e non li temeva.

Ricordava ogni incontro, ogni persona che nel corso degli anni era giunta – per caso, o per volontà – nel suo reame. Ricordava le lenze dei pescatori, con le loro esche prelibate: erano stati tutti pasti graditi, per quanto rischiosi. Ricordava le bombe a mano e gli spari sulle colline, quando il suo reame era appena agli albori. Conservava memoria della memorabile tendata del ’77, quando un gruppo di scout si era accampato ai bordi dello stagno e vi era rimasto per ben quattro giorni. Il Luccio aveva osservato dal pelo dell’acqua quelle facce un po’ distorte dalla prospettiva acquatica, aveva percepito le vibrazioni dei loro canti e delle loro voci, fino a che non se ne erano andati. Ricordava tutte le coppie che si erano amate fra le canne e gli arbusti, ignare della sua presenza discreta, con le loro grida che squarciavano la tranquilla monotonia di quel posto. Da sempre il Luccio osservava e per ogni cosa nuova si meravigliava, il corpo muscoloso immerso nel tepore putrescente dell’acqua.

Anche gli uomini avevano imparato a conoscere il Luccio, e ben presto fra i pescatori del posto si era diffusa la voce che una enorme bestia dimorava lì. Il Re non faceva nulla per contrastare queste voci: era pur sempre un pesce, del resto, e poi quella fama lo compiaceva. Talvolta si esibiva in un guizzo improvviso soltanto per farsi additare da quei pochi turisti che venivano apposta per lui, per ammirarlo o per cercare di catturarlo.

Nessuno ci era mai riuscito. Il Luccio era sopravvissuto a nevicate e siccità, alla carestia e alla guerra, alle trappole più insidiose dei pescatori: era diventato un tutt’uno con lo stagno, e finché quest’ultimo resisteva anch’egli era destinato a sopravvivere. Per anni e anni si era arrovellato sul suo destino, sulla sua esistenza e sul significato che questa potesse avere: sempre ammesso che esistesse, un significato. Ma poi aveva semplicemente smesso di cercare risposte, annullandosi in quell’acqua che lo proteggeva e lo cullava, ma dalla quale spesso si sentiva ingabbiato.

Quante volte, in gioventù, aveva cercato di saltare oltre l’orlo della riva, soltanto per avere una fugace vista di cosa ci fosse al di là dello stagno. Perché, ne era convinto, il mondo non poteva esaurirsi in quell’ammasso di acqua e argilla: doveva esserci qualcosa di più, qualcosa di talmente immenso e stupendo da non potersi nemmeno immaginare. Qualcosa che poteva forse paragonare al cielo in certe giornate di primavera, quando tutto il mondo si risveglia e persino un anonimo stagno di provincia può trasformarsi in qualcosa di bellissimo.

Eppure col passare degli anni si era fatto sempre più stanco, e anche la sua leggenda si era affievolita: le persone che gli facevano visita si erano fatte sempre più rare. Il Luccio soffriva per la sua solitudine: non aveva mai avuto madre né compagna, e a dire il vero non conosceva nemmeno il proprio volto. Non aveva mai avuto modo di rispecchiarsi negli occhi di un suo simile. Soltanto quegli uomini sembravano volergli parlare, quando con meraviglia riuscivano a scorgere la sua forma maestosa a pelo d’acqua, e i suoi occhi gialli che li scrutavano.

Un giorno, il Luccio decise di morire.

Maturare quella decisione era stato un processo lungo e sofferto, durato una vita; ma ora il pesce si sentiva vecchio e debole, la carne un tempo così viva era ormai pallida e desquamata, le branchie incrostate di alghe. Senza il conforto di quegli esseri alti e strani la sua solitudine si espandeva fino a riempirgli il cuore e le minuscole vene, facendolo sprofondare fino al fondale. Aveva passato tutta la sua vita a guizzare sulla superficie dell’acqua, ma ora ne aveva abbastanza.

Soltanto un rimpianto gli restava conficcato come una spina nel fianco: avrebbe voluto sapere se quello che aveva sempre sognato, se il mondo che aveva immaginato nella sua mente esisteva davvero, oltre quella ripa. O se piuttosto era soltanto una costruzione perversa del suo cervello, nient’altro che un palliativo per la sua solitudine. Come quelle persone che amava e con le quali non poteva nemmeno comunicare. Col tempo si era convinto che anch’esse non fossero altro che fantasmi, proiezioni del suo inconscio malato: e non era un caso che, con la vecchiaia, se ne fossero andate. Ora era pronto, ora aveva capito.

Non esisteva nulla, eccetto lo stagno.

E lui era parte di esso, in qualche modo. Così restava sul fondo, con il respiro sempre più esile, le branchie tese a filtrare ossigeno, e si lasciava ricoprire da quella fanghiglia, desiderando di addormentarsi e non risvegliarsi mai più.

E fu in un giorno di primavera quando, ormai morente, sentì una vibrazione differente dal solito. Era un suono che non sentiva da un bel pezzo, ma era inconfondibile: il suono di una voce. Con immensa fatica il Re si staccò dal fondale per risalire, per un’ultima volta, fino a mezz’acqua. Il Luccio scrutò fra le ninfee, e vide l’ombra di un vecchio con la canna da pesca in mano, accompagnato da un bambino. Ancora una volta un bagliore giallastro promanò dai suoi occhi, seppur flebile. Osservò la lenza calare dall’alto, impattare contro la superficie dell’acqua e infine sprofondare lentamente verso di lui. Un piccolo grappolo di lombrichi si dibatteva attorno all’amo: il Luccio vi era dinnanzi e lo osservava, rapito.

Gli bastò spalancare le fauci perché quell’ultimo pasto entrasse dentro di sé, trafiggendolo. Una scarica elettrica percorse il suo corpo, ma ormai si sentiva pronto. Sentiva il filo che lo tirava verso l’alto, verso il cielo. Sentiva voci concitate attorno a sé, e come un tempo si sentiva felice.

Fu allora che lo vide davvero, il mondo: esisteva davvero, ed era bellissimo.

L’ultima cosa che percepì prima di chiudere gli occhi fu una mano che lo afferrava, una mano nervosa e minuta. Come quella di un bambino.