Lo stadio dello specchio

Gli abitanti di Piacenza sono asserragliati all’interno dell’angusta cerchia delle mura medievali. Il vicino fiume Po è diventato un confine invalicabile. I ponti che univano la parte settentrionale della città alla Lombardia sono stati demoliti, e dove un tempo sorgevano le società di canottaggio ora sorgono torrette per gli avvistamenti, con l’obiettivo di respingere l’eventuale arrivo degli Altri.

L’Uomo cammina stando ben radente al muro, costeggia via Tibini mantenendosi al riparo dell’incerta traccia che l’ombra proietta sul selciato. Oltre il suo sguardo facce oscure, inquiete, ammiccamenti e leggeri cenni del capo a proporre un potenziale scambio di sostanze stupefacenti. Lui non cede, tiene gli occhi puntati al suolo senza dare troppa confidenza. Conosce quella zona, la sua zona. Il suo quartiere. E da tempo ormai ha imparato i movimenti circospetti degli spacciatori, il loro parlottare barbarico, nel solito accrocco all’angolo della strada.

D’improvviso il grattacielo si erge sgraziato davanti a lui, erompe dal cemento come un tumore: eppure rimane ben saldo, suo unico punto di riferimento. Fra i peggiori esempi della spregiudicata edilizia degli anni ’60, il Grattacielo dei Mille rappresenta l’ultimo baluardo della sua Piacenza, malgrado i nigeriani perennemente assiepati alle sue radici. Alza per un istante gli occhi a seguire la pigra traiettoria di una bicicletta, e nota con malcelato odio il giovane nero che la conduce. Poco lontano, una camionetta dei carabinieri avanza minacciosa lungo la strada, e dalla torretta del veicolo un uomo tiene il mirino ben puntato, seguendone i movimenti.

Sono già dentro.

Ha questa strana sensazione già da un po’, forse da mesi: che gli Altri avessero trovato il modo di penetrare fin dentro alla città, celati chissà come allo sguardo attento della vigilanza armata. E che qui, all’interno, avessero incominciato a camuffarsi, mischiandosi con la folla. Forse erano addirittura in grado di moltiplicarsi… Ma questo non lo sapeva con certezza. Eppure, avvertiva una strana inquietudine ogni volta che incontrava certe facce ombrose, estranee, lineamenti dalla semantica per lui incomprensibile. Erano stranieri, certo: cercava di non dar loro troppa corda, ne evitava persino lo sguardo. In quel quartiere, però, era difficile. Solo per caso, raramente, giungeva un sorriso di perla a illuminargli la giornata: ma era pur sempre un ghigno di straniero, infido e falso, che non meritava alcun cenno di rimando.

Non sapeva con certezza quando fosse accaduto, quando le cose avessero preso quella piega. Ma se avesse dovuto per forza trovare un punto di svolta avrebbe detto: le facce. C’era stato un tempo in cui ogni faccia aveva lineamenti franchi, sinceri, ed esprimeva le proprie emozioni direttamente, senza mediazioni. Poi tutto era cambiato. Alcuni visi si erano come contratti, deformati, a tal punto che era impossibile discernerne contorni e limiti. Ogni volto si scomponeva in migliaia di pixel anonimi, ognuno egualmente significativo, e non c’era modo di coglierne il senso con uno sguardo d’insieme. Ed erano scuri, sempre più scuri, a tal punto che le sfumature si confondevano in un unico immane annebbiamento. Non si conosceva la provenienza dei Senzavolto, né se fossero in realtà contagiati da uno strano morbo mai visto prima. Però, in breve tempo, gli abitanti della città si erano ritrovati circondati. Gli Altri erano violenti, questo si sapeva: oltre le mura ormai nessuno osava avventurarsi, e i pochi folli che ci avevano provato non erano mai più tornati.

Quando i Piacentini avevano incominciato a organizzarsi era forse già troppo tardi. Le pattuglie a ogni angolo della strada, le mitragliatrici puntate a ogni incrocio non potevano più impedire lo scoppio, imprevedibile e dionisiaco, della violenza. E i vecchi, gli stessi che salutava ogni mattino prima di andare al lavoro, si erano reclusi nei propri appartamenti, moderna specie di sepolcri adeguatamente condizionati. Così vivevano nell’attesa dell’imminente attacco degli Uomini Senzavolto, avendo ormai da anni troncato ogni rapporto con il mondo esterno.

Piacenza aveva resistito bene, bisognava ammetterlo. Sui mercati i prodotti non scarseggiavano, e pur nella più totale autarchia la gente riusciva a tirare avanti, a condurre una vita decente. Erano persino consentite le comunicazioni, anche se – ovviamente – solo all’interno delle mura. Fuori, invece, non c’era più niente: il mondo pareva fosse stato cancellato da un enorme tratto di penna. Inizialmente c’erano state proteste contro la decisione di attuare il totale isolamento della città, come estrema misura di emergenza; ma ben presto, dinnanzi alla gravità della situazione, anche le poche voci contrarie erano state zittite. E per sopperire allo spaesamento causato dal nuovo regime si era deciso di far finta di niente, di continuare a vivere come se il Mondo Là Fuori esistesse ancora, tale e quale a prima. Il quotidiano locale veniva stampato regolarmente, e qualcuno si era premurato di fornire un flusso costante di notizie false – sebbene assai verosimili – per riempire il vuoto e la noia dell’isolamento.

Così si aggira come straniero nel suo quartiere, la faccia stravolta che scatta in automatico a controllare che nessuno lo stia seguendo, in preda alla paranoia. Le mura, quelle antiche vestigia di un’epoca ormai obliata, non possono arrestare la marea. E il grande Fiume, così possente nei suoi giorni di piena, si è ormai ridotto a rivo isterilito in questa piatta estate padana.

Lui, una volta, aveva visto un Senzavolto. Il ricordo gli è rimasto impresso indelebilmente in un angolo ben preciso del cranio, a tal punto che potrebbe quasi indicarne l’esatta posizione. Ricorda il mastodontico supermercato Auchan, ha memoria della distesa sterminata del suo parcheggio, delle lunghe corsie fosforescenti con le merci ordinatamente disposte sugli scaffali, con una precisione quasi maniacale. I supermercati gli erano sempre piaciuti. Ricorda anche di essersi avvicinato, allora, a una figura un po’ ingobbita che rovistava nel reparto dell’abbigliamento. Doveva essere un commesso, o qualcosa del genere, perché indossava la divisa del supermercato. Forse era cinese, a giudicare dalla carnagione giallastra. A una sua richiesta quello si era voltato e – rabbrividisce ancora al solo pensiero – aveva mostrato l’ammasso informe che portava attaccato al collo, qualcosa di difficilmente descrivibile a parole. Era come se i lineamenti non fossero esistiti più, o meglio si fossero fusi fra loro impedendo qualsiasi riconoscimento. La pelle che doveva trattenere la carne del volto si era come squarciata in più zone, a tal punto che era difficile distinguere dove il volto avesse inizio e dove, invece, vi fosse lo spazio circostante. Ha memoria del terrore che aveva provato, di come fosse fuggito a perdifiato travolgendo ogni scaffale, inseguito dal Senzavolto.

Quell’esperienza l’aveva segnato nel profondo, ma era sopravvissuto. Da quel momento, anche grazie alla sua testimonianza, i suoi concittadini si erano resi conto del pericolo costituito da questi strani esseri e si erano decisi a prendere le dovute contromisure. Nel quartiere avevano preso a guardarlo con occhi diversi, più gentili. La gente spesso gli sorrideva, lo stava ad ascoltare paziente mentre raccontava il terribile episodio del Riconoscimento. Erano grati, di certo, dell’inestimabile servizio che aveva reso alla comunità svelando a tutti la Verità. Era grazie a lui, dopotutto, che potevano sopravvivere, seppur in quello stato di perenne assedio.

Anche quest’oggi l’Uomo deve fare la spesa, ma ormai a Piacenza non ci sono più supermercati. Solo l’Esselunga sopravvive, ma è troppo lontana e poi fa un caldo d’inferno, sente le goccioline di sudore appiccicarsi alla maglietta e la cosa lo fa impazzire, non riesce proprio a tollerarlo. Così si infila nel solito bazar etnico di via Torricella, a due passi da casa sua. Il proprietario viene da un qualche paese d’oriente e non gli sta affatto simpatico, coi suoi modi burberi e un po’ schivi. Non parla bene l’italiano e spesso i due si comprendono solo a fatica; soprattutto, il negoziante tende a evitare con uno sbuffo sarcastico qualsiasi riferimento ai Senzavolto, al Mondo Là Fuori, ogni volta che lui prova a intavolare il discorso.

E poi, accade di nuovo.

Deve pagare, e nel porgergli le monete i loro sguardi si incrociano per un istante. E in quel momento se ne rende conto: sono occhi vuoti, senza identità. E intorno a essi ogni tratto sembra sciogliersi, come deformato da un’obliqua forza di gravità. Impossibile dire quale sia la sua espressione, anche se lo sente ridacchiare dietro a quelli che – se lo ricorda – un tempo erano stati ispidi baffi neri. Raggelato, getta i soldi sul bancone e fugge, fugge lontano, sentendo lo sguardo del Senzavolto ben puntato sulla sua nuca. Forse – pensa – loro sono persino in grado di entrare nel suo cervello. Mentre corre a perdifiato per le strade della città una certezza lo assale, con uno strano misto di eccitazione e raccapriccio: aveva ragione, la sua teoria era fondata. Ormai sono dentro, hanno trovato il modo di infiltrarsi nella popolazione. Le mura, ormai, sono del tutto inutili.

“Ogni organismo ha bisogno di una barriera”, pensa. Una barriera semi-permeabile – gli si conceda il termine – perché deve al contempo consentire la difesa dagli attacchi esterni e la fuoriuscita delle tossine. Ma ora le tossine sono troppe. E sono troppo vicine. Per troppo tempo Piacenza ha ignorato la loro presenza e ora si moltiplicano, ferme agli angoli delle strade come spie in attesa del momento giusto per colpire. Nessuno, a parte lui, sembra averle riconosciute. Loro, gli Altri, invece, sanno. Sanno che ha capito, che ancora una volta è riuscito a smascherarli. E ora l’Uomo si sente, forse per la prima volta, davvero in pericolo di vita. Ma più di ogni altra cosa teme i loro sguardi, vuoti ma penetranti, in grado di scarnificare il cuoio capelluto e farsi largo fin dentro al cranio, come laser che perforano l’osso nudo, le meningi, la polpa dell’encefalo. E da lì, una volta dentro, sarebbero stati in grado di controllarlo. Forse, si ripete mentre ansima, sarebbe diventato lui stesso un Senzavolto. E già li sente tutti gli sguardi su di sé, sulla sua pelle ormai ridotta a inutile esoscheletro: chissà per quanto tempo, ancora, sarebbe riuscito a respingerli.

Deve nascondersi: le strade brulicano di Senzavolto e i pochi suoi concittadini non sembrano essersi accorti di nulla: lo osservano, con un misto di curiosità e compatimento, mentre corre per via Borghetto inondato di sudore. Loro non sanno, non sanno ancora. Ma lui non può rivelare ciò che sa: troppi occhi lo osservano, lo farebbero a pezzi ben prima che riesca ad aprire la bocca. La strada è dritta e gli sembra infinita, ormai si è fatta sera e le luci al neon tracciano scie infinite nell’aria, mentre sfreccia in direzione di un posto sicuro. Arriva al Bar Soleluna che il cuore gli sta per scoppiare in petto, è completamente fradicio e si sente strano, come se i pensieri si fossero ingarbugliati e lui non riuscisse più a distinguerne l’inizio dalla fine, né la loro esatta provenienza. Li sente quasi contorcersi come vermetti nella sua testa, ed è scosso da un brivido di repulsione. Quei pensieri, i suoi pensieri… Iniziano quasi a sembrargli estranei: come se qualcuno glieli avesse ficcati a viva forza, dritti attraverso il foro di un orecchio.

Il Bar Soleluna è dotato di un ampio dehors, che coi primi caldi si trasforma in una trappola micidiale: è fatto di plastica molto spessa e perciò crea un microclima tropicale, amplificando – se possibile – la caratteristica afa piacentina. Dentro, solo pochi temerari stanno seduti ai tavolini, a confabulare e a fumare centinaia e centinaia di sigarette. In quel posto, mimetizzato dalla spessa coltre di fumo, l’Uomo inizia a sentirsi un po’ più al sicuro. Dà un rapido sguardo ai dintorni e, stranamente, non nota nessun Senzavolto. Solo un signore sulla sessantina, vagamente somigliante a Karl Marx, se ne sta in un angolo un po’ in disparte, a sfogliare pigramente il giornale. Lo conosce: è un architetto e un tempo, circa un’era geologica fa, era stato suo amico. Marx gli fa un cenno e subito l’Uomo si ritrova al suo fianco, con una birra ghiacciata in mano e una sigaretta già accesa davanti a sé.

“Allora, come va? Ti vedo un po’ stanchino: sei fradicio, hai fatto una corsa? Per fortuna che sei arrivato tu, comunque, perché qui è un mortorio. Stasera non c’è un cazzo di nessuno. Ma insomma, com’è la situazione ai confini? I Senzavolto si sono finalmente decisi ad attaccare?”

Quando Marx inizia a parlare è come un fiume in piena, non lo puoi arrestare. Noto per la sua logorrea, è di norma evitato dagli altri avventori; però quest’oggi l’Uomo ha bisogno di sfogarsi, e Marx talvolta sa essere anche un buon ascoltatore. Tuttavia, aveva sempre quel maledetto ghigno ironico, quasi beffardo, ogni volta che lui gli raccontava le ultime notizie dal confine, o le sue teorie sui Senzavolto infiltrati. Questo fatto lo irrita non poco. Comincia a raccontare la sua terribile scoperta e sente le parole fuoriuscirgli dalla bocca, una per volta, come se fossero entità quasi fisiche, tangibili. Le sente rotolare risalendo lungo la trachea e poi venir espulse fuori, sillaba per sillaba, come sputacchiate. Rimane stupefatto e deve fermarsi: non capisce cosa gli stia accadendo e ha perso il filo del discorso.

“Mah, a dire il vero mi sembri un po’ confuso, vecchio mio. Forse un’altra birra ti schiarirebbe le idee. Certo la storia degli infiltrati… È vero che questi stranieri sono troppi, che rompono i coglioni… Però mi pare un’accusa un po’ eccessiva, dài. Io, ad esempio, i loro volti li vedo benissimo. E poi, che possiamo farci noi: ormai sono dentro no? Mica possiamo cacciarli tutti fuori dalle mura, con i veri Senzavolto ad aspettarli!”

Marx si concede uno scroscio di risa che, sinceramente, gli appare fuori luogo, considerando la gravità della situazione. Lo osserva mentre ridacchia, schiantato sulla solita sedia in plexiglass, e sente un fiotto di rabbia risalire da qualche parte nel suo ventre fin dentro la gola, come bile acida. Deve calmarsi: Marx ha ragione, è fin troppo agitato.

Finché non la nota. La barba di Marx, ragione principale ed evidente del suo soprannome, d’un tratto non c’è più. Al suo posto un mento tondeggiante e perfettamente glabro, che pare quasi innaturale. L’Uomo strabuzza gli occhi per la sorpresa: fino a un istante prima era sicuro che sfoggiasse il consueto barbone da vecchio comunista. Marx sta parlando, come di consueto. Ma i suoi fonemi giungono a lui come lontani, ovattati, soffocati da qualcosa che non li lascia passare. E la bocca ormai è ridotta a un foro che si sta chiudendo, un gigantesco gorgo che aspira l’ossigeno circostante e lo risputa in boccate fumose. Allora tiene la testa bassa, perché ha paura di ciò che vedrebbe se spostasse appena lo sguardo sui suoi occhi.

“Le mura di cui parli sempre, caro amico… Devi sapere che non sono affatto medievali! Piuttosto, sono state costruite dai Farnese nel Cinquecento. Del resto, se fossero davvero medievali, a quest’ora saremmo belli e fottuti!”

Anche Marx – ora ne è certo – era ormai uno di Loro. L’Uomo bofonchia qualcosa sull’urgenza di andare a pisciare e, con questa scusa, riesce ad allontanarsi. Forse non si è accorto che l’ho riconosciuto. Forse sta solo aspettando il momento giusto per uccidermi, o peggio ancora, per prendere il controllo della mia mente… All’interno del Soleluna c’è solo il solito barista, che lo saluta con un cenno: un tempo avrebbe detto che era cinese, ma ora sa qual è la sua vera natura. Si dirige senza indugio verso il bagno, spalanca la finestra e, in un secondo, è fuori. Di nuovo in fuga.

Completamente impanicato, non sa più dove dirigersi e si sente quasi mancare il suolo sotto ai piedi. È ormai esausto ma sa che deve correre, correre e correre ancora per scampare a quell’epidemia, per non perdere anch’egli il suo volto. È questo l’unico pensiero che sembra rimanere ben saldo, mentre tutto il resto si è fatto caotico e frammentato, come se ogni concetto avesse perso il suo legame con la realtà. Non sa dove si trova, né perché.

Poi, le vede. Davanti a sé le antiche mura, solida difesa che li aveva protetti per tutti questi anni, si estendono per centinaia di metri incustodite e decadenti, ricoperte da arbusti e insozzate di rifiuti. Nessuna anima intorno, nemmeno un poliziotto di guardia. E il varco di porta Borghetto, completamente sguarnito.

“Ormai è finita”, pensa, “il momento è giunto”. I Senzavolto hanno ormai il controllo di Piacenza, e a breve le orde provenienti da oltre-il-fiume si riverseranno a far scempio di quel che resta della città. Nessuno, a parte lui, può far fronte all’attacco. E allora, solo allora, sente la paura scivolargli pian piano via dalle membra, liberandolo. Solo lui ha un volto. Solo lui può affrontarli, o essere annientato. Si dirige sicuro verso porta Borghetto, e soffocando un sospiro la varca.

Ora è fuori. Si guarda intorno e non vede un’anima, non un cane si aggira in quella terra di nessuno distesa fra le mura e il Po. Avanza come in stato di trance, accarezzando al suo passaggio l’erba cresciuta incolta, diretto verso quello che un tempo era stato il ponte ferroviario. Laddove c’erano gloriose società di canottaggio, ora il buio e lo sfacelo hanno avuto la meglio. E finalmente le vede: le acque piatte e melmose del grande fiume, che tante volte da bambino aveva scrutato assieme a suo padre, in cerca di qualche airone cenerino o del fantomatico pesce-siluro. Ora è quasi sulla riva e – solo per un istante – si perde in quei ricordi così remoti, affiorati chissà come dai recessi della sua memoria. Poi un bagliore cattura il suo sguardo. Qualcuno, o qualcosa, sta affannandosi per risalire la ripa, come se fosse appena emerso dal fiume.

L’Uomo non ha molto tempo per pensare: è ormai giunto il momento di agire. Si acquatta dietro a un arbusto e attende, palpitando. Nella tasca dei jeans porta sempre un piccolo coltello a serramanico, che gira e rigira nervosamente mentre osserva i movimenti dei Senzavolto sulla riva. Sono almeno quattro, a occhio e croce: probabilmente una piccola pattuglia, un’avanguardia del loro ben più imponente esercito. Sono vestiti in tenuta mimetica e portano con sé lunghe armi, forse lance, che non riesce a ben identificare. Parlano una lingua strana, come sbiascicata, e vengono dritti verso di lui, enormi e sgraziati come certi mostri dei film horror di bassa lega. Probabilmente hanno avvertito la sua presenza, si sono accorti della sua diversità. Ora può quasi sentirne il respiro: sa di melma di fiume, di alcool stantio e pesce in putrefazione, sa di morte e di tutto il disgusto che si può immaginare.

Gli basta un balzo, e la mano scatta quasi in automatico: dritto in faccia, come gli hanno insegnato da ragazzo, a colpire quella che dovrebbe essere la vena giugulare. Ma i Senzavolto non hanno, evidentemente, alcuna vena da recidere, né sangue da versare al suolo. E così si ritrova in un batter d’occhio disteso orizzontale, bloccato da quelle che gli sembrano centinaia di braccia tentacolari. E per un istante, appena prima di abbandonare questa terra, gli pare di cogliere il barlume d’uno sguardo, sperso in mezzo al nulla di un volto che non c’è.

***

Il cielo è perfettamente bianco, immacolato. Però è diviso in quadranti, dai lati uguali, come se qualcuno li avesse scolpiti a viva forza in quel candore.

“Non può essere il cielo”, pensa. Un grosso moscone si posa quasi all’angolo del quadrante centrale, rimanendo sospeso esattamente sopra alla sua testa. Un soffitto. Non capisce bene dove si trova ma si sente bene, al sicuro, come perfuso di un calore leggero ma costante. Il calore procede dai piedi alla cima del capo, rischiarandogli anche la mente. Si trova in una stanza, e anche se la sua visione è ancora appannata riesce a scorgere il bracciolo di un letto e, appena oltre, una porta. Prova a muoversi ma sente uno strano torpore, come se i muscoli si ribellassero ai suoi comandi nervosi. Riesce a voltare la testa e capisce che si trova sdraiato, con una flebo ficcata nel braccio: forse, in un ospedale. Gli sembra un posto vagamente famigliare, eppure non ricorda di esserci mai stato prima. Anzi, a dirla tutta non ricorda molto del suo passato: eppure, in questo momento la cosa non sembra disturbarlo più di tanto.

Deve essersi assopito per un po’ quando un rumore gentile lo riporta alla realtà. La porta della stanza è spalancata, e sulla soglia indugia un signore sulla settantina. Ha la pelle rugosa come un’antica testuggine e pochi capelli radi a incorniciargli il viso, gli occhi infossati e un camice bianco almeno quanto quella stanza. Nel complesso, sembra gentile: lo osserva sorridendo ma è un sorriso disteso, che non vuole schernirlo. Per un attimo l’Uomo trasalisce: si sofferma sui lineamenti, li percorre con un tremito sino agli occhi, che l’età non è riuscita a intaccare nell’antica bellezza. Un volto umano, senza dubbio. Quasi non si accorge delle lacrime che gli stanno inondando il volto: d’improvviso ricorda e gli sembra tutto passato e lontano, come un incubo che al mattino ci si è già scordati. E allora deve vomitare un torrente di domande, vuole sapere tutto, dove si trova, se è all’interno delle mura e soprattutto…

“… Che fine hanno fatto i Senzavolto?”.

L’uomo barbuto lo scruta come per valutarlo, soppesandone le parole. Poi si avvicina lentamente, con fare rassicurante. “Non si preoccupi, Signor * , è tutto finito. Ora può finalmente godersi un po’ di riposo. I Senzavolto sono stati scacciati, le mura sono ben salde. Si trova all’Ospedale di Piacenza, nel reparto di Diagnosi e cura. Ma avremo tempo di parlare di questo: dovrà rimanere qui per un po’, se non le dispiace. Ha affrontato una dura prova, in fondo. Ora si riposi, mi raccomando. Se vuole, oltre quella porta trova un bagno dove potrà rinfrescarsi”.

Quasi non crede a quelle parole che hanno il suono della pura gioia, un tono da festa in piazza, come se fosse finita una guerra mondiale. Si passa i polpastrelli sulle guance irrigate di lacrime e osserva quel dottore dai modi garbati che si allontana, lasciandolo alla sua intimità. Accoglie volentieri il suo consiglio: sente una tremenda arsura e vuole spruzzarsi qualche bella manata di acqua fresca in faccia. Dopo, magari, si sarebbe persino goduto una lunghissima doccia. Il bagno è piccolo ma ben organizzato, pulito e accogliente. Sopra al lavabo un grande specchio gli restituisce la sua immagine, dal torace in su. Apre il rubinetto e fa scorrere l’acqua sulle dita, sui palmi, lasciandola cadere dalle mani giunte fino alla nuca.

Poi avverte qualcosa di strano, una consistenza inaspettata. È come una sorta di gelatina, che sente colare dal cranio al lavabo, fino a insudiciare il pavimento. Alza lo sguardo e fissa dritto davanti a sé. Ma non c’è nessun viso a rispondergli dall’altro lato dello specchio: solo un ammasso informe, dai confini indistinti, che non gli restituisce alcuna espressione. Allora vorrebbe soltanto urlare, ma non un suono può provenire da un uomo senza bocca. Rimane lì, in una solitudine eterna, incapace di riconoscersi.

L’Uomo Senza Volto, ormai, non si ricorda più neppure il suo nome.


[questo racconto ha vinto il primo premio del concorso nazionale Storie di Barriera]