Il movimento ascensionale dei piumini

Nel quartiere di Lambrate, a Milano, c’è una casa uguale a tante altre che sporge a strapiombo sulla linea ferroviaria. La facciata è talmente vecchia e ingrigita dallo smog da aver preso un colore completamente diverso da quello iniziale, che ormai nemmeno i più anziani del palazzo ricordano più. Ogni appartamento ha il suo angusto balconcino, pericolosamente sospeso sulle rotaie, ma solo pochi condòmini vi passano più del tempo necessario a stendere i panni o a sbuffare fuori qualche tiro nervoso di sigaretta. I balconi del primo piano superano di poche spanne i tralicci della ferrovia, a tal punto che allungando un po’ il braccio oltre alle ringhiere si potrebbe quasi afferrarli.

La ragazza abita in uno di questi appartamenti al primo piano, una specie di monolocale che ha preso in affitto quando ancora frequentava l’Università. Lo spazio è veramente minimo e già in due persone si farebbe fatica a muoversi, ma per fortuna la ragazza non ha mai ospiti.

Ci sono giorni in cui rimane immobile sul divano per ore e ore e quasi si dimentica di essere viva, se non fosse per il frastuono dei treni che, regolarmente, la fa sobbalzare. All’inizio non sopportava quel rumore così improvviso e violento, quasi oltre ogni umana sopportazione: col tempo però ci è era abituata, e ora riesce a distinguere lo sferragliare di un pigro regionale da quello di un Intercity, tanto il suo orecchio si è fatto esperto. A volte, mentre rimane lì ferma in stato di quasi-catalessi, si diverte a indovinare di che treno si tratti, quale sia la sua destinazione o l’orario di partenza. Ha pure rubato in stazione una tabella con tutti gli orari delle corse e lo ha appeso alla parete della stanza, per poterli imparare. I treni le fanno compagnia, le danno modo di immaginarsi tutte le storie e le emozioni delle persone che ci stanno dentro: per pochi istanti riesce a sentirle così vicine, mentre sfrecciano in direzione della grande pianura, verso l’orizzonte.

Loro, invece, non si accorgono mai della sua presenza.

Una volta al mese la ragazza esce dal suo appartamento per andare all’Esselunga, il supermercato più vicino. Ha una lista della spesa sempre uguale, che ormai conosce a memoria e contiene tutto ciò di cui ha bisogno. Non ama avventurarsi oltre alle strette mura di casa sua, perché da tempo diffida delle persone e tutti gli sembrano troppo cattivi, privi di ogni gentilezza. Soprattutto gli uomini la guardano strano e quegli sguardi, lei, non li riesce proprio a sopportare. Prima di uscire controlla più e più volte che non ci sia nessuno sul pianerottolo, perché non tollera di dover parlare con i vicini.

A stare sempre chiusa in casa la ragazza ha sviluppato una carenza di vitamina D, perché non riceve abbastanza sole: di questo però non era consapevole finché non ha iniziato a sentire male a tutte le ossa ed è stata costretta a chiamare un dottore. Lui le ha parlato dei rischi di rimanere al chiuso per troppo tempo, e di come il corpo avesse bisogno della luce solare per potersi mantenere sano e vigoroso: “Se non prende un po’ di sole, signorina, correrà guai seri. Forse persino la morte, chissà. E poi, è un vero peccato che una ragazza così giovane se ne stia tutto il tempo in casa, senza far nulla.”

È proprio uno spreco, le aveva detto il dottore.

Quella sera la ragazza ha osservato molto a lungo la sua immagine riflessa nello specchio, non riconoscendosi affatto. Le sembra di essere uno di quei buffi anfibi che ha visto alla televisione, una specie di salamandra che vive nelle profondità della crosta terrestre, infrattata in qualche pozza d’acqua dove non giunge mai la luce del sole. Le creature di questo tipo perdono ogni pigmentazione, perché in un mondo privo di luce non serve alcun colore. In una situazione del genere niente e nessuno, d’altra parte, potrebbe vedere alcunché. E anche a lei sembra d’essere diventata trasparente ormai, come se stesse pian piano scomparendo. Prende in mano una ciocca di capelli e se la rigira tra le dita, assorta nei suoi pensieri.

Ora la ragazza passa sempre più tempo sul balcone, seduta sopra a una seggiolina da campeggio. Il pavimento è sempre pieno delle cicche di sigaretta che i suoi vicini dei piani più alti lasciano cadere, con sfacciata noncuranza, ma a lei non sembra importare. Rimane ferma con gli occhi semichiusi, a prendere il sole, e ogni tanto il fracasso di un treno che passa la risveglia dal suo torpore.

Osserva il movimento ascensionale dei piumini che ogni primavera dalle fronde dei pioppi invadono Milano, e pensa che a volte anche lei si sente così, leggera e inconsistente, come sospesa a mezz’aria.

Allunga la mano oltre alle sbarre della ringhiera, verso i tralicci elettrificati. Sono così vicini che potrebbe quasi afferrarli.