Qualcosa che brucia

La cute che riveste le labbra è una patina molto sottile, solo poche cellule addossate l’una all’altra a proteggere la mucosa sottostante. La maggioranza di queste cellule, come in quasi tutto il resto della superficie corporea, è cheratinizzata. Morta. Questo fatto l’ha sempre colpita: ciò che vediamo di ogni persona – compresi noi stessi – è materia inorganica. Tutto quello che vive sta più sotto, nascosto allo sguardo. Ci sono sere in cui beve troppo vino rosso: allora un pigmento violaceo rimane intrappolato fra i due strati di pelle e per tutto il giorno seguente ha il labbro inferiore purpureo, come se qualcuno l’avesse picchiata.

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Quando era piccola il Nonno le aveva rivelato che gli uomini hanno solo sette strati di pelle, e che quando si consumano tutti si rimane come nudi, con la carne viva esposta all’aria e al sole, finché non secca. Allora si muore. Che ci fossero solo sette strati di pelle e non, per esempio, settecentoventitré, le sembrava un’enorme ingiustizia: forse, a partire da quel giorno, aveva iniziato a dubitare dell’esistenza di Dio. Faceva il bagno e, dopo un po’ che stava a mollo, si accorgeva che la pelle si era fatta tutta grinzosa e squamata, rugosa e quasi friabile al tocco. Allora si spaventava e urlava a pieni polmoni perché riusciva quasi, osservando bene le minuscole fenditure nei polpastrelli delle dita, a intravedere il secondo strato. Poi arrivava la Mamma, e lei dimenticava.

Ben presto aveva smesso di preoccuparsi per tutta questa storia ed era diventata una precoce mangiatrice di unghie compulsiva. Così rimaneva immersa nella vasca per secoli e secoli, finché una voce non la chiamava: “Esci, o ti verranno le rane nella pancia!”. Quella possibilità le pareva tutt’altro che remota, e con fantasia splatter s’immaginava l’intero processo di trasformazione del girino avvenire proprio lì, in quel momento, nel suo stomaco. La Mamma rideva della sua espressione inquieta e lei non capiva perché i grandi fossero così imperturbabili, quasi sprezzanti, di fronte all’eventualità di una morte atroce. Le rane avevano invisibili aculei molto aguzzi, che usavano per scavare nella carne dall’interno, per farla a brandelli. Volevano uscire fuori. Avrebbe visto i loro buffi globi oculari fare capolino dal suo ombelico, mentre moriva.

Quando era piccola tutto era pericoloso e letale e non ci si poteva avvicinare alle prese elettriche perché “la corrente ti incenerisce in un secondo”, né si potevano calpestare le linee sul pavimento dell’asilo per più di quaranta volte “altrimenti si muore”. Il come e il perché non erano specificati. E se per caso un capello le finiva in bocca doveva sputarlo subito, perché una volta mangiati i capelli si attorcigliano intorno alle budella e te le strizzano lentamente finché non si otturano, e allora si muore. Non era un mondo facile, questo. Doveva masticare con molta attenzione la trota, perché nonostante il Nonno l’avesse preparata con cura era pur sempre possibile che qualche lisca fosse rimasta nascosta nella polpa e allora, se l’avesse incautamente inghiottita, la lisca avrebbe potuto conficcarsi in gola e rimanere incastrata lì, per sempre, finché lei non fosse morta dissanguata. Anche per questo aveva deciso di non mangiare più il pesce.

Quell’estate il Nonno l’aveva portata al fiume a pescare. Lei si era seduta sulla riva e aveva allungato i piedini nell’acqua, rabbrividendo al contatto con il viscidume delle alghe. Aveva osservato i Cavedani, i Barbi, i Vaironi e gli altri strani pesci schizzare da un sasso all’altro, come se giocassero a nascondino. Con uno ci aveva pure fatto amicizia. Aveva anche scoperto che l’amo da pesca ha la punta a uncino, così quando il pesce lo inghiotte rimane attaccato alla carne e più lui si dimena, più l’amo entra in profondità. A volte certi pesci sono troppo voraci e risucchiano l’esca senza neanche masticarla, così finisce direttamente nell’intestino. Allora bisogna usare un aggeggio chiamato Slamatore, che s’infila dentro al pesce e, risalendo lungo il filo di nylon, riesce a staccare l’amo.

Quando prendeva un pesce grosso il Nonno sudava per l’emozione e gli brillavano gli occhi. Dopo averlo slamato lo afferrava per la coda e lo sbatteva contro un sasso, molto forte. “Così muore subito e non soffre”, diceva. I pesci più piccoli invece finivano in un sacchetto di plastica trasparente, di quelli dell’Ortofrutta, e lei li sentiva dibattersi anche dopo un’ora. Non era mai riuscita a spiegarsi la ragione di quella disparità di trattamento. A volte sognava che il Nonno la metteva in un enorme sacchetto dell’Ortofrutta: lei si dibatteva ma la plastica si appiccicava alla pelle e poi non riusciva a gridare, perché non c’era aria.

Quando stava per morire, si svegliava.

***

Tutto quello che vive sta bruciando. Il parco esplode nel sole e le cicale le trafiggono i timpani, le sente quasi dentro di sé e pensa che non riuscirà a sopportarle ancora a lungo. A volte sente come un vuoto che si apre appena sopra alla bocca dello stomaco, qualcosa che la risucchia dal di dentro. A quel vuoto non riesce a dare un nome. C’è una coppia seduta sulla panchina, avranno forse quindici anni e si tengono per mano. Hanno facce da bravi ragazzi, probabilmente è il loro primo bacio. Lei ride e parla a voce alta, col tono di voce sospeso fra la gioia e uno stupore sincero, e un imbarazzo esibito quasi con orgoglio. “È strano sai? Sono così abituata a sentire la mia lingua nella bocca, ma non quella di un altro”.

Lei li guarda, sorride e sente qualcosa che brucia, appena sotto alla pelle.