Sui benefici terapeutici degli ipermercati

Un professore di Filosofia era entrato in depressione. Un giorno come tanti aveva preso la metropolitana, raggiunto l’università Statale di Milano e si era seduto dietro alla solita cattedra dell’aula 211, dalla quale tre volte a settimana, ogni semestre, insegnava la sua materia. L’aula era abbastanza grande, una specie di anfiteatro postmoderno: nonostante questo, non di rado gli studenti erano costretti a sedersi per terra o perfino a rimanere in piedi, assiepati nelle ultime file, pur di poter assistere alle sue lezioni.

Quel mattino il professore aveva incominciato a parlare e tutto gli sembrava sotto controllo: la voce usciva nitida e quasi scolpita nell’aria, amplificata magistralmente dal microfono. Ogni sua parola, ogni concetto sembrava un oggetto a sé stante, limpido per l’intrinseca evidenza e collegato linearmente a ogni altro. Gli esempi che usava per spiegare i passaggi più complessi – ormai rodati in decenni di insegnamento – risultavano sempre illuminanti per i suoi allievi e lui poteva osservare in ognuno dei loro volti la tensione stemperarsi, come sempre accade quando si impara qualcosa di nuovo.

A un certo punto, però, si era reso conto di come ogni suo gesto e ogni sua parola fossero, in un certo senso, del tutto automatici: semplici abitudini, ben sedimentate nel corso degli anni. Era come se non scaturissero dalla sua volontà, ma da qualcosa d’altro. Allora le sue parole si erano fatte sempre più estranee, e le facce degli studenti sempre più perplesse e poi quasi sconcertate. “Che cosa sto facendo?”, pensava il professore, e nessuna delle possibili risposte gli sembrava soddisfacente. Aveva bofonchiato qualche frase di scusa, adducendo un generico malore alla testa quale causa del suo improvviso annebbiamento. Poi aveva raccattato le sue cose dalla cattedra, con le mani che tremavano, e le aveva ficcate nella tracolla mentre tutti lo fissavano.

D’un tratto era giunto alla conclusione che no, tutto quello che aveva insegnato non aveva alcun senso: per anni aveva portato avanti una squallida recita, un inganno ai danni di migliaia di giovani menti. Tutte le sue teorie non erano che pensieri di altri, adeguatamente mondati e rielaborati, ma comunque irrilevanti. I suoi fiumi di parole, il suo vano cianciare, erano del tutto ininfluenti rispetto all’ingombrante presenza di un Mondo crudele e intricato, che nessuno avrebbe mai potuto comprendere fino in fondo. Poi aveva esteso questo suo pensiero a tutte le altre azioni che ogni giorno, nella sua patetica routine, metteva in scena. E a tutta la sua esistenza, in generale.

Così aveva smesso di rispondere ai messaggi dei suoi tesisti e si era messo in malattia. Dopo quasi una settimana la segretaria dell’università l’aveva contattato per chiedergli spiegazioni, e lui era scoppiato a piangere alla cornetta del telefono. Un medico si era presentato alla sua porta e il professore gli aveva esposto le sue recenti scoperte sulla vacuità della filosofia e dell’esistenza in generale. Il medico aveva fatto qualche domanda di routine e poi, con voce tranquilla, gli aveva spiegato che soffriva di depressione: una malattia molto comune nella loro epoca, della quale non doveva vergognarsi. Gli aveva poi illustrato come il suo sistema di neurotrasmissione della serotonina fosse per qualche ragione alterato, e per questo motivo gli aveva prescritto un apposito farmaco antidepressivo. “Impiegherà qualche settimana a fare effetto, ma poi vedrà che si sentirà meglio. Cerchi di fare un po’ di movimento, se riesce”, si era raccomandato il medico mentre scriveva la ricetta. Poi, se n’era andato.

Il professore era corso alla farmacia di quartiere per comprare quella medicina dal nome assai strano, e subito dopo si era rintanato nel suo appartamento. Per quasi due settimane era rimasto chiuso lì dentro, a fumare Camel gialle e a bersi enormi bicchieri di gin-tonic dal mattino alla sera. Fumava e beveva sul letto, cosicché ben presto le lenzuola si erano riempite di buchi e di macchie. Tutto ciò non gli importava.  Liquidava i pochi colleghi o amici che cercavano di contattarlo con le solite frasi laconiche, con la scusa di una non precisata malattia del fegato che, purtroppo, lo avrebbe costretto a un riposo assoluto, almeno per qualche tempo. Solo un lontano amico di infanzia aveva capito e gli aveva chiesto come fosse essere depressi. La risposta gli era uscita automatica, semplice almeno quanto la domanda. O almeno così doveva essergli sembrata. Vocaboli insufficienti, come mutilati.

Depressione era una parola inventata, come ogni altra, rarefatta come l’aria d’alta montagna: qualcosa di ineffabile e di vuoto. Vuoto: questa era la parola che più le somigliava, forse. Ma di un vuoto pesante, denso e appiccicoso come la gravità. Qualcosa che non riusciva a vedere ma che gli schiantava il petto, facendogli chinare il capo ogni volta che s’alzava dal suo giaciglio. E la sensazione persistente di trovarsi nel fondo di un imbuto nero, dalle pareti oliate di grasso: impossibile aggrapparsi, impossibile raggiungere quella luce che alle volte baluginava dal cono oltre il quale, forse, il pendio si sarebbe fatto un po’ meno ripido.

Ma più di ogni altra cosa voleva dormire. Dormire tanto, svegliarsi tardi, potersi sempre rifugiare nel gomitolo delle lenzuola. Aggrapparsi a quell’àncora, fare del sonno il proprio anestetico prediletto. D’altronde, cosa meglio del vuoto può annientare sé stesso?

E cercava anche altre soluzioni-tampone, possibilmente rapide e indolori: sertralina, nicotina, etanolo. Nomi strambi per strane alchimie, creature misteriose che come spiriti s’intrufolavano nella sua testa. E tentavano di aggiustarla. O, almeno, cercavano di rabboccare quel vuoto che sempre più sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi, man mano che scivolava nel collo dell’imbuto. Eppure qualcosa andava sempre storto: il suo corpo si ribellava e i demoni li vomitava fuori, in poltiglia nerastra. Ma questo non faceva che ingrassare le pareti, le rendeva ancora più scivolose. E il vuoto si spalancava sempre di più. Tutto quello che era venuto dopo era una conseguenza necessaria e inevitabile. Il nulla si era fatto largo dentro di lui, finché il professore non aveva quasi imparato a conoscerlo e a plasmarlo con le sue mani. E le quattro mura della stanza si erano avvicinate sempre più, mentre lui – povero scarafaggio dall’aria banalmente kafkiana – si dibatteva con fiacchezza, senza riuscire a ribaltarsi.

Senza nemmeno volerlo fare. Ecco, di una cosa era sicuro: quando sei depresso non hai voglia di far nulla. Ogni gesto, ogni decisione gli pareva pesante e insostenibile oltre ogni immaginazione, come se egli fosse gravato dal peso di un invisibile macigno che lo incatenava al collo. E il corpo si faceva sempre più estraneo, la mente fiacca e oppressa da una condanna eterna, definitiva. Le persone con cui era abituato a vivere si erano fatte sempre più sfocate, oltre l’orlo del grande imbuto. Le sentiva fissarlo con un misto di compassione e paura, a volte tendendogli la mano. Ma loro sapevano già che lui era troppo, troppo lontano per poterla afferrare.

Alla fine il professore si era trovato nella spiacevole situazione di dover uscire di casa, poiché aveva ormai esaurito ogni riserva di cibo. La prospettiva di ordinare qualcosa a domicilio lo atterriva, così si era deciso per una spedizione nel più vicino Carrefour. Dopo essersi scolato mezza bottiglia di gin il professore aveva infine trovato il coraggio per lasciare la sua tana, e si aggirava come un fantasma per le vie di Milano Nord. All’interno del supermercato era stato accolto da un’atmosfera di quieta familiarità, come se gli scaffali lo stessero aspettando da lungo tempo: lui, il Figliol Prodigo. Ogni prodotto era elegantemente esposto alla sua vista, secondo la miglior inclinazione possibile, e sembrava sfavillare sotto alle luci fotoniche del Carrefour. Le lattine, i pacchetti plastificati lo chiamavano per nome, lusingandolo con promesse allettanti. Per la prima volta da molto tempo il professore si era dimenticato di sé stesso e dei suoi pensieri, rimanendo come abbacinato di fronte alla vastità di merci disposte con cura meticolosa, solo per Lui. Aveva percorso in stato di stupefazione assoluta ogni singola corsia del supermercato, soffermandosi a ponderare ogni offerta speciale della settimana. Poi aveva optato per una confezione di ali-di-pollo in confezione famiglia, pagata alle casse automatiche. Aveva buttato il pollo nel primo bidone che aveva incontrato, mentre rincasava.

Da allora, ogni sera, il professore trovava il coraggio di lasciare casa per fare le sue quotidiane scorribande al Carrefour, che rappresentavano per lui l’unico momento di euforia in una vita altrimenti segnata dall’angoscia e dal tedio. Solo lì ritrovava un universo razionale e ordinato, prevedibile, con uno scopo. Contemplava manufatti che avevano come unica ragione d’esistenza l’essere consumati, che sembravano invogliarlo a farsi scartare, mangiare, utilizzare. A farsi annichilire. Ogni cosa aveva il suo prezzo, espresso con caratteri gialli fosforescenti su sfondo immacolato. Tutto questo lo faceva sentire meglio, quasi al sicuro.

Quasi come se fosse felice.